Si chiama Sordello da Goito. È una stella della lirica provenzale. Non è un trovatore come tanti. È uno che gira l’Europa e raccoglie successi. Sono lì le origini della letteratura europea e occidentale, quando le corti medievali mettono un vestito pop e la poesia abbandona il latino e sceglie il volgare, la lingua parlata e bastarda di un mondo in cerca di identità, con le parole che cercano il ritmo nella musica e le storie sono lunghe canzoni dove si parla di amori, di seduzione, di gesta eroiche e satire politiche, di belle donne e cavalieri, di servi corrotti e sovrani meschini. Quando non hanno altro da fare si sfidano tra di loro, con invettive e prese per i fondelli, scambi di strofe e insulti. Tenzoni. È nota quella di Sordello con Aimeric de Pegulhan, figlio di un mercante di stoffe e famoso per le sue troppe amanti.
È una domenica di Pasqua, qui il tempo ricomincia a scorrere, una decina di minuti dopo mezzogiorno. È il 10 aprile del 1300. Dante e il suo duca, il maestro che lo accompagna, camminano lungo la spiaggia. Virgilio scantona la folla di anime che li circonda. Non hanno mai visto un vivente da queste parti e chiedono, si sbracciano, elemosinano preghiere, suffragi e sconti di pena. È l’Antipurgatorio. Dante si sente come il vincitore del gioco della zara, dei dadi, che si ritrova a fare i conti con i postulanti, mentre lo sconfitto se ne sta da solo a ragionare sul fato e sui propri errori. L’uomo in disparte è appunto Sordello da Goito, per brevità chiamato artista. È proprio lui a imbeccare l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!». È il canto sesto del Purgatorio.
La politica dovrebbe essere un atto di fiducia verso l’altro. Solo che spesso non è così. È diffidenza, conflitto, interesse di parte, ricerca ostinata di un nemico. La fiducia invece è innaturale. È un salto etico. È sovrumana. Non ha nulla di razionale. Per posarla a terra c’è bisogno di un passaggio, una stretta di mano, un patto, un contratto. Serve il sigillo di un garante. È da qui che nasce la comunità. Dante nel suo viaggio si confronta con tre personaggi ed è con loro che chiacchiera sulle miserie e le virtù della politica. Sono Ciacco, Sordello e Giustiniano. Non è solo un passaggio dal particolare all’universale. Non è solo Firenze, Italia e Occidente. È la speranza di Dante di trovare una risposta alle promesse mancate della politica. Come si supera il conflitto? Dante cerca rifugio in qualcosa di antico, di perduto e di più grande. È il simbolo dell’Aquila e qui forse si illude. Sceglie come imperatore Giustiniano, saggio e misurato. È l’uomo della legge, che scrive il codice civile. È l’uomo che sbaglia, ma rinsavisce. È il sovrano che getta le basi di uno Stato laico ma che riconosce i valori della fede cristiana. È ragione e metafisica. L’impero allarga gli orizzonti e garantisce gli individui. Dante sogna il diritto di cercare la propria felicità. Purtroppo, per noi e per lui, non la trova.
La politica reale è fango. È Ciacco. È grasso e deforme, e fa fatica a sollevare il corpo. Dante lo incrocia nel terzo cerchio dell’inferno, lì dove stanno i golosi, e non lo riconosce. È lui che si presenta: voi fiorentini mi chiamavate Ciacco. Ciacco come una bestemmia. Ciacco il porco. Ciacco che no, non gli bastava mai. Dante ne parla quasi con misericordia. C’è qualcosa di più insidioso che avvelena la vita pubblica di Firenze. È qualcosa che ancora ci appartiene. È il gioco binario delle due fazioni: guelfi e ghibellini e poi bianchi e neri. La sua Firenze è in metamorfosi. È ricca. È dinamica. È moderna. È città di banche e mercanti, che fanno base lì, ma si muovono in Europa e nel Mediterraneo, con filiali e alleanze che tracciano le strade del mondo. Il cuore di questo sistema è il fiorino. È la moneta di ventiquattro carati d’oro che su una faccia riproduce il giglio e sull’altra il volto di San Giovanni Battista. Non è più la Firenze di cento anni prima, quello circoscritta dentro le mura antiche.
Allora a contare erano solo i magnates, i “grandi”, come venivano chiamati in volgare. Poi sono arrivati i nuovi ricchi. I ghibellini, che tifano l’imperatore, sono sconfitti. È la prima diaspora. È l’accusa di eresia che colpisce Farinata degli Uberti. Ma cosa divide i vincitori? I guelfi sono bianchi e neri per un conflitto di aristocrazie, la nuova contro la vecchia. I Cerchi, famiglia emergente, sono bianchi. I Donati sono neri. Firenze è la repubblica degli incompatibili.
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