Massimiliano Fuksas ha ottant’anni. Di vite ne ha vissute parecchie. Ha girato il mondo, ha conquistato Mitterrand, gli americani, i cinesi, Bruno Zevi e Giorgio Caproni. Ha sempre rifiutato di inquadrarsi. Ha un cognome che viene dal Baltico e tutta la libertà possibile. Ha fatto la rivoluzione nel ‘68, è sempre stato a sinistra (mai del Pci), però stima Silvio Berlusconi ed Enrico Letta. È orgoglioso del suo lavoro, entusiasta, ma anche molto modesto. Adora l’architettura ma la tratta con sufficienza. E dice che l’architettura sarà davvero libera solo quando si libererà degli architetti. Entrare nel suo studio a un passo da Campo de’Fiori è un’esperienza. Ti sembra di essere uscita da Roma e di entrare in una bolla d’arte, fatata, di emozioni, grafica e di pensieri.
Architetto, dicono che lei sia un genio. Ma questo suo genio c’era già quando era bambino?
No.
E come è uscito?
Perché è morto mio padre quando avevo sei anni e per me è stata una fortuna.
Non capisco.
Quando muore tuo padre tu perdi il concetto del potere. Io non ho mai avuto il senso del potere. Non conosco il rispetto per le gerarchie. Questo mi ha reso ingovernabile. E se sei ingovernabile sei libero.
Cosa è successo dopo la morte di suo padre?
Sono rimasto solo con mia madre, che era laureata in filosofia. Si era laureata con Giovanni Gentile. Mio padre era medico chirurgo. Era laureato ad Heidelberg. Era lituano. Da Heidelberg era venuto a Roma, aveva studiato con Pietro Valdoni. Però mio padre era straniero. Ed anche ebreo. E mia madre aveva sposato uno straniero, dunque aveva perso la nazionalità. Non poteva insegnare.
Suo padre lavorava?
Mio padre lavorava in clandestinità.
Per lei cosa ha rappresentato la morte del padre?
Io non avevo il complesso di Edipo. Perché se perdi il papà a sei anni perde l’Edipo. E perciò amavo mia madre senza complessi. Non avevo il senso del possesso.
Né del possesso né del potere?
Già, un vero peccato.
Da ragazzino dove viveva?
Quando mio padre morì mi venne a prendere a Roma il secondo marito di mia nonna che era estone. Mia nonna era tedesca e aveva sposato un lituano. Poi un estone. Andai a vivere dai nonni in Austria. E scoprii cosa fossero i ricchi. Noi eravamo poveri, però la famiglia di mio padre era benestante.
Elementari in Austria?
Le prime tre. Volevo imparare a suonare il piano ma non ci sono riuscito. Poi tornai a Roma a fare la quarta elementare. E a scuola conobbi Giorgio Caproni, uno dei massimi poeti italiani. A Roma tornai povero. Tornavo a casa all’ora di pranzo e cucinavo io. A nove anni. Perché mia madre insegnava in un liceo fuori Roma e rientrava tardi.
Ha cucinato tutti i giorni?
No, alle volte andavo a mangiare a casa di Caproni. Lui mi famigliarizzò con la lettura e la poesia.
Poi il liceo.
Al liceo incontro Asor Rosa, Castelfranco e tanti altri. Un giorno, uscito dalla scuola, mi ritrovai con qualche lira in tasca. Davanti a scuola c’era un coloraio. Comprai dei colori e tre pennelli. E decisi di fare il pittore.
Vendeva i suoi quadri?
Vendevo qualche quadro. Andai a vivere a 17 anni da solo a Portico d’Ottavia: 10 mila lire al mese, anno 1962. Facevo ancora il liceo.
Viaggiava?
Sì, sempre con l’autostop. A 16 anni andai a Capo Nord. Trovavo lavoro ovunque e mi pagavo i viaggi. Cameriere, lavapiatti. A Copenaghen facevo le pizze.
La politica?
Entro dopo. Dopo la metà degli anni 60. Prima non mi interessava.
Cosa ne pensa della politica?
Penso alla guerra del Vietnam e poi all’uccisione di Che Guevara.
Lei è stato un leader del ‘68?
Sì. Facevo parte di un gruppo che si chiamava Marat Sade. Per me il movimento era antimperialista. Il movimento mi piaceva. Poi appena diventò una organizzazione non mi piacque più.
C’è una foto che la ritrae mentre guida il corteo che si concluderà con la celebre battaglia di Valle Giulia.
Sì, ricordo bene. La polizia aveva occupato l’Università. Noi ci facemmo porre la sede dal partito comunista romano, a via dei Frentani. E in assemblea decidemmo di rioccupare l’Università. Ma occupare la Sapienza, cioè la sede centrale dell’Università, era impossibile. Allora pensiamo di prendere Architettura, a Valle Giulia. Era l’1 marzo 1968.
Scontri durissimi con la polizia…
Noi eravamo giovani, agili e allegri. I poliziotti erano vecchi. Vecchi celerini, cappottone, le giberne, sù di peso. Posso capire cosa scrisse PierPaolo Pasolini, anche se aveva torto.
Aveva torto?
Non aveva capito che noi non eravamo i figli dei borghesi come diceva lui.
Perché fece l’architetto?
Io volevo fare il pittore, non l’architetto.
Invece?
Presa la maturità andai da mia madre a dirglielo. E lei mi chiese: e adesso? Io le risposi: adesso faccio il pittore, vivo da solo, mi mantengo, viaggio…
E lei?
Lei mi interruppe con una frase solenne che ancora ricordo: “Vedo l’ombra del fallimento dietro di te…”. Poi mi disse: “Dammi retta, iscriviti all’università”.
Le diede retta?
Mi iscrissi ad Architettura, ma solo per fare un piacere a mia madre. Ero il peggior studente di tutta la facoltà. Tutti voti bassi. Un solo 30 e lode in storia dell’architettura. Con Bruno Zevi. Tenga conto che io in partenza non sapevo niente di storia dell’architettura: conoscevavo vagamente il nome di Le Corbusier. A un certo punto mi accorsi che avevo quasi finito gli esami… L’ultimo, e poi la laurea, con Quaroni. Litigavamo sempre. Il giorno della laurea mi ero rifiutato di portare un certo progetto e Quaroni sbottò: “Devi rompere i coglioni fino all’ultimo minuto!”.
Dopo la laurea?
In Inghilterra. E lì conobbi Archigram uno dei più importanti studi di architettura che in quegli anni rappresentava le più avanzate avanguardie. Lavorai con loro per qualche mese e poi tornai a Roma pieno di idee.
Chi ha scoperto il suo talento?
Zevi. Ma litigavo anche con lui.
Qual è la differenza tra bravura e genialità?
Non so. So che nel mio studio è proibito copiare. Anche copiare se stessi. Tutte opere uniche.
Se sua madre non avesse insistito?
Avrei fatto il pittore.
Lei si riconosce nella sinistra di oggi?
Oggi non c’è né sinistra né destra.
E quindi?
Scrissi nel ‘69 un libretto: la fine del lavoro salariato. Avevo ragione. Il conflitto tra lavoro e capitale non c’è più. Però sono rimaste le grandi ingiustizie.
Per esempio?
Oltre 1.200 ricchissimi e 4 miliardi di persone che lavorano per loro. Qualcosa non funziona. Siamo tornati a prima della Rivoluzione francese.
Qual è la novità politica?
Che l’economia si è presa il potere politico. Berlusconi è stato il primo ad averlo capito.
Chi ci vorrebbe oggi per guidare la sinistra?
Ci vorrebbe Gesù Cristo. Ma poi i tipi come lui finisce appesi a una croce.
L’architettura è la ricerca del bello o del funzionale?
Nessuna delle due cose. L’architettura deve produrre emozioni. Se l’architettura non ti emoziona non esiste.
Le sue opere emozionano?
Qualche volta sì.
Qual è la sua opera che più ama?
La prossima.
Come le è venuta l’idea della nuvola dell’Eur?
Io insegnavo a Columbia, a New York, e vivevo in Francia. Viaggiavo sopra le nuvole con l’aereo. Sopra c’è il nulla, sotto c’è il mondo. In quel periodo stavo studiando i frattali.
Cosa sono?
Prenda un cavolfiore. Il frattale dice che un pezzetto del cavolfiore, anche minuscolo, è identico a tutto il cavolfiore. E io volavo, e mischiavo frattali e nuvole. Poi un giorno decido di lasciare Parigi e New York e di tornare a Roma.
A Roma cosa ha trovato?
Un concorso per il nuovo palazzo dei congressi. Non volevo farlo. Ero in lite con tutta la politica. E sapevo che in queste cose la politica conta. A un certo punto decido da farlo: 775 concorrenti. Prima di mettermi a lavorare andai in vacanza in Grecia. Ero in un’isoletta. Il cielo era blu, completamente terso. Neanche una nuvola. Ma io la nuvola la vedevo lo stesso. E pensavo: devo fare questo progetto. La nuvola.
In cosa consisteva?
Qual è la geometria della nuvola? Non c’è. E se imprigionassimo la nuvola in una geometria che succederebbe? Io volevo che questa nuvola tendesse a uscire, a liberarsi dalla geometria.
775 concorrenti?
Già. Una prima selezione con progetti anonimi. La superai e entrai nei primi sette. Poi tra i sette scelsero me.
Perché è arrivato primo?
Il mio progetto era veramente strano. Un giorno chiamai Achille Bonito Oliva, che è sempre stato genio e sregolatezza. Mi disse: son sicuro che vinci tu. Perché? Un progetto così non si è mai visto.
Lei col suo lavoro ha spesso a che fare col potere?
Tutti i giorni.
Ha dovuto fare un compromesso col potere?
No, mai. Non servirebbe. Ti chiedono un progetto e quello devi fare.
Lei è un’archistar.
No.
Non le piace essere chiamato archistar?
No. Io sono quel che faccio. Vede quello schizzo sul vetro? Quello è un progetto che mi è venuto di getto. È Mosca 2022.
E poi lo ha fatto?
Sì.
L’architettura della Défense a Parigi non c’entra niente con la Nuvola?
No. Io cerco di non replicarmi mai.
In Cina sta costruendo una città?
Sì.
Mi spieghi…
Cosa devo spiegare? È il mio lavoro.
Una città?
Si, un cucchiaio, una città, dipende…
Tra architettura e arredo c’è parentela?
No, però, ho fatto molti mobili.
Cosa pensa del Salone del Mobile che apre a Milano?
Sono contento che questa manifestazione così importante si svolga all’interno della Fiera di Milano. L’ho progettato io nel 2000, un milione di metri quadri.
Quali novità dobbiamo aspettarci dal salone?
L’utilizzo di materiali riciclati e poveri. Questo mi affascina molto. Spero che ci sia sempre di più.
Del verde cosa ne pensa?
Il green da solo non ce la fa.
Quando le affidano un progetto le chiedono che sia ecosostenibile?
Sempre. Una volta invece mi chiedevano che fosse iconico. Parole che detesto.
Le ultime edizioni del Salone del Mobile erano un po’ vaghe?
Secondo me il Salone del mobile è un pezzo della Fiera di Milano. La Fiera di Milano è la cosa più forte che esiste al mondo.
L’ha fatta lei.
Sì. E senza difficoltà. Ho lavorato con persone straordinarie.
Per esempio?
Roberto Formigoni. Eccezionale.
Mi racconti come andò.
Ricordo di un giorno che venne a casa mia di domenica mattina l’amministratore della Fiera, Luigi Roth. Mi disse, indicando la carta: qui però a me sembra troppo stretto. Aveva ragione. L’avevo stretto quel passaggio per spendere di meno. Mostrai a Roth il progetto originale. Lui lo vede, sorride e dice: facciamolo così. Chiamò Formigoni e in cinque minuti si risolse il problema.
Andava d’accordo con Formigoni?
Sì. Ricordo ancora quando lui disse: “Fuksas ha il cuore a sinistra ma il portafoglio a destra”.
Mi parli della Salva-Milano.
Io giudico l’architettura dalla qualità. Se fai una cosa fatta bene per me hai fatto bene a farla.
Ma ci sono le leggi….
Io penso che il 90 per cento delle leggi attuali vadano cambiate.
Cioè?
Libertà dentro una sfera di civiltà. Punto. Vede, il problema non è mai è il coltello, siamo noi. Come lo usiamo il coltello: per mangiare o per uccidere?
Cos’è il bello?
Una fregnaccia che raccontiamo noi architetti. C’è un grande filosofo, Paul Virilio, che insegnava a Parigi e un giorno mi spiegò un suo corso. Diceva agli studenti: “Fatemi il progetto di una bella scuola”. Poi diceva: “Ora fatemi il progetto di una scuola brutta”. Poi diceva: “Ora spiegatemi perché questa è bella e questa è brutta”. Scena muta.
Un progetto, per funzionare come deve essere?
Boh. Tecnica e fortuna. Pensi all’acustica. Sa come ho fatto alla Nuvola? Ho chiamato un tecnico cinese, novant’anni. È entrato, ha battuto due o tre volte le mani, poi ha detto, lì un po’ più di cemento, lì un po’ meno, lì del legno, qui vetri. Morale, l’acustica è venuta perfetta.
Lei oggi ha lo stesso entusiasmo di quando ha iniziato?
Stamattina ho cambiato idea, un mio progetto non mi è piaciuto.
Perché?
Troppo faticoso.
Allora?
Si butta e si ricomincia.
E correggerlo?
Lo faccio raramente. Quando fai un progetto che ti piace e c’è una parte che ti piace di più, però nell’insieme qualcosa non va, sai che devi fare?
Cosa?
Devi eliminare la parte che ti piace.
Non ci credo.
Sì, è così. Se c’è una parte del progetto che ti sembra irrinunciabile, però il progetto non funziona, devi levare la parte irrinunciabile: la levi e funziona tutto.
Forse anche nella vita?
Sì, credo di sì.
E più facile lavorare in Italia o fuori?
Dipende. Lavoro bene negli emirati, in Albania. Poi in Cina.
In Russia sta lavorando?
Avrei un progetto importante.
Di architetti come lei ne escono uno su un milione.
Io non sono ancora uscito. Sto studiando. Sto imparando…
Quale visione del futuro c’è nella nuova architettura e come potrà migliorare la vita delle persone?
Il futuro è passato. Quando provi a immaginarlo è già dietro di te.
A cosa serve il lavoro di voi architetti?
Il nostro lavoro serve a migliorare le persone. Se crei loro dei luoghi, li migliori. Il nostro cliente finale sono le persone.
In che modo voi architetti potete guidare la trasformazione?
Guidare? No, mai. Noi dobbiamo farci guidare. Dobbiamo sapere che il nostro ruolo è assolutamente secondario. Sono convinto che l’architettura vincerà nel momento in cui l’architetto scomparirà.
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