Gli orsetti di peluche negli Stati Uniti portano il suo nome, «Teddy Bear». Tutto nasce da una foto con il fucile a tracolla e un cucciolo al suo fianco. Mamma orsa forse l’aveva uccisa proprio lui. Qualcuno dice che Donald Trump un po’ gli assomiglia. Tutti e due hanno sfidato e poi conquistato, senza garbo, il partito Repubblicano. Sono entrati alla Casa Bianca senza bussare, da scostumati, fregandosene delle regole e dei debiti da pagare. La realtà è che sono facce, opposte, della stessa medaglia. Solo che il volto di Theodore Roosevelt, eletto nel settembre del 1901 a soli 42 anni presidente degli Stati Uniti, è scolpito nella roccia del Monte Rushmore. La differenza tra i due è il rapporto con l’aristocrazia del denaro. Donald si sente il loro boss, Theodore è riuscito a limitarne la potenza.
Donald è sceso a patti con Elon Musk, Theodore ha sfidato John Davison Rockefeller senza abbassare mai gli occhi. Alla base di queste due scelte c’è una differenza idea di democrazia. Roosevelt non ha mai smesso di crederci. C’è un momento, nella storia degli Stati Uniti, in cui la frontiera non è più un luogo geografico ma una condizione dell’anima. È il momento in cui l’America smette di conquistare territori e comincia a esplorare se stessa, i suoi mostri, i suoi miti, le sue contraddizioni. Ecco lui è figlio di quel momento. Roosevelt entra a cavallo nella modernità. Letteralmente. È un cowboy intellettuale, un naturalista con la pistola, un moralista con il sigaro. Non assomiglia a nessuno. E forse è per questo che riesce a cambiare tutto.
Siamo agli inizi del Novecento. Washington è un teatro d’ombre. Le lobby industriali dominano il Congresso. I petrolieri, i magnati dell’acciaio, i banchieri: sono loro i veri padroni dell’America. Il governo è una funzione secondaria, una specie di segreteria privata dei grandi capitali. Tra tutti, i più potenti sono i “baroni del petrolio”, capeggiati da John D. Rockefeller, il fondatore della Standard Oil. La sua compagnia controlla il 90% del mercato americano del petrolio. È un impero privato più potente di molti Stati sovrani e ha uomini nei consigli d’amministrazione, nei giornali, nei tribunali. E a Washington, i suoi emissari entrano ed escono dagli uffici del potere come se fossero a casa loro.
Roosevelt osserva. Non è un ingenuo, conosce il meccanismo e sa come si è costruito. Ma ha un’idea precisa: l’America non può essere ostaggio dei monopoli. La democrazia non può essere una finzione decorativa mentre i cittadini sono schiavi di interessi privati. Serve una battaglia. E non una battaglia simbolica, ma una guerra vera, totale, contro i trust. Così che nasce la figura del «trust buster». Roosevelt si guadagna questo soprannome con coraggio e testardaggine. Non lo fa per strategia politica. Lo fa perché è convinto che l’ingiustizia economica sia una minaccia tanto seria quanto una guerra. E il monopolio è l’ingiustizia per eccellenza: corrompe il mercato, distorce la libertà, cancella il merito.
Nel 1902 apre un’inchiesta federale contro la Northern Securities Company, un gigantesco consorzio ferroviario controllato da J.P. Morgan e altri magnati. Il caso arriva alla Corte Suprema. Contro ogni previsione, la Corte dà ragione a Roosevelt ed è un precedente epocale. Da quel momento in poi, la Casa Bianca non è più lo zerbino dei capitali. È il centro del potere repubblicano, in senso classico: il luogo in cui si difende l’interesse pubblico contro i soprusi dei privati. La lotta più simbolica, però, è quella contro la Standard Oil. Roosevelt non la conduce da solo. Si affida a uomini capaci, a procuratori determinati, come il leggendario Gifford Pinchot. La compagnia viene smembrata nel 1911, dopo una lunga e feroce battaglia legale.
Quando arriva la sentenza, Roosevelt non è più presidente. Ma è evidente che senza il suo coraggio iniziale, senza la sua visione, senza la sua volontà di sfidare gli intoccabili, quella pagina non si sarebbe mai scritta. Roosevelt non odia i ricchi. Non è un socialista, né un rivoluzionario. È un conservatore, ma di quelli veri, di quelli che sanno che la conservazione passa attraverso il rinnovamento continuo delle regole. Roosevelt è molto di più di un presidente riformatore. È un uomo che cammina nel mondo come se dovesse sempre conquistarlo per la prima volta. E mentre combatte contro i monopoli, costruisce un’altra idea d’America: quella che protegge la natura, che difende la bellezza, che considera la wilderness non un ostacolo allo sviluppo, ma un patrimonio da custodire. Non in senso ideologico, ma in senso sacrale. Nel 1906 firma l’Antiquities Act, una legge che permette al presidente di dichiarare certi luoghi “monumenti nazionali”. Ne salva decine, dai canyon dell’Arizona ai boschi della California. Trasforma l’idea stessa di territorio: da risorsa da sfruttare a eredità da trasmettere. Yellowstone era già parco nazionale dal 1872, ma è con Roosevelt che prende forma il sistema dei parchi come lo conosciamo. Visita i luoghi, li esplora a cavallo, li racconta, li protegge. Dice: «Conservare le nostre risorse naturali è fondamentale per il futuro della nazione. Distruggerle significa rubare ai nostri figli».
Così mentre i petrolieri vedono la natura come un serbatoio da svuotare, lui la vede come un tempio. È questa la rivoluzione più profonda. Non quella contro i trust, ma quella che restituisce al potere politico una dimensione etica e poetica. La politica come cura, come custodia, come tensione verso il futuro. Roosevelt non è un santo. Resta un uomo imperfetto, a tratti arrogante, a volte impulsivo, ma a è uno che crede. Uno che non arretra. Uno che vive ogni sfida come un’avventura morale. Quando lascia la Casa Bianca, nel 1909, l’America non è più la stessa. Non è più un territorio occupato dai padroni dell’economia. Sussurratelo a Trump e non gridatelo alla banda di PayPal.
Sono tempi in cui un pugno di visionari che da ragazzi sognavano un’America anarcocapitalista ora ha messo piede nelle stanze dello Stato. Lo fa per asciugarlo, con una cura dimagrante da trenta chili in trenta giorni, ma allo stesso tempo mostra sempre più sfiducia nella democrazia tradizionale, rifugiandosi nell’utopia, pericolosa, della repubblica di Platone, quella che chiede all’aristocrazia di segnare le sorti del mondo. Un po’ sembra di vedere il tramonto degli Jedi nella saga di Guerre Stellari, quando per potere e paura cadono nel lato oscuro della forza. Musk è uno Jedi caduto? Troppo presto per dirlo. Forse un nuovo Teddy Roosevelt, cugino diverso di quell’altro Roosevelt, il democratico e «new deal» Franklin Delano, avrebbe un senso in questa stagione confusa e tormentata. Qualcuno capace di guardare i giganti del dollaro negli occhi e dire: qui comanda la democrazia.
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