Dai «novanta Paesi in coda per baciarmi il c…», alla più clamorosa retromarcia della storia in meno di ventiquattr’ore. Un record difficilmente superabile, che avrà conseguenze gravi non solo sulla solidità della presidenza Trump – sebbene parlare di “anatra zoppa” sia prematuro – ma anche in termini di rapporti di forza con la Cina. Dietro la decisione di congelare per tre mesi la bomba-dazi non c’è infatti solo il forte pressing esercitato dall’Azienda America, che già stava pagando un tributo elevatissimo all’ambizione di questo moderno Dottor Stranamore. C’è anche il timore che la deriva dei rapporti con Pechino possa sbilanciare ulteriormente i conti pubblici di Washington, visto che dei 36.200 miliardi di dollari di debito totale, ben 1.100 miliardi sono posseduti dal Paese guidato da Xi Jinping. È bastato che martedì 8 aprile Pechino si tirasse indietro dal rinnovo di una parte dei suoi T-bond in scadenza, per far balzare i rendimenti e dunque la spesa per interessi. Un segnale chiaro, che tuttavia, invece di indurre a più miti consigli Trump, si è scatenato in lui nuova aggressività, tradotta nell’impennata al 145% dei dazi imposti ai cinesi.
Si vedrà nelle prossime settimane quale piega prenderà l’intera vicenda, anche in considerazione dei negoziati che si stanno svolgendo sottotraccia, ma dai quali francamente non c’è da aspettarsi granché visto che tra le due potenze si è instaurata una gara alla supremazia.
Resta il fatto che nessuno può cancellare il danno grave provocato sui mercati dalla sconsiderata politica del tycoon. Né se si pensa che i forti rimbalzi degli indici cui abbiamo assistito il giorno dopo il congelamento dei dazi, possano in qualche modo chiudere la ferita. Crolli generalizzati del 10, del 15 e persino del 20% in tre giorni sono rotture che richiedono mesi per tornare all’equilibrio. Lo abbiamo visto tante volte. Ci volle più di un anno per tamponare la peggiore delle sedute borsistiche degli ultimi quarant’anni, vale a dire quella del 19 ottobre 1987, quando l’indice Dow Jones cadde in poche ore del 23% trascinando tutte le Borse del mondo in un crollo epico (a Milano fu “solo” del 14% ma a Hong Kong il tonfo toccò il 45%). Per avere un’idea del danno sociale che procurò all’Azienda America quella rottura, basti ricordare che nei tre mesi successivi al crac a Wall Street vennero “esodati” ben 150mila tra remisier e trader per la caduta al picco degli affari.
Va detto che allora si veniva da una bolla speculativa che andava gonfiandosi da almeno due anni, mentre oggi non si vedono quegli eccessi se non nel dorato recinto delle big tech. È tuttavia impensabile, quand’anche vengono ristabiliti più civili rapporti commerciali tra i diversi blocchi continentali, che le Borse chiudano gli occhi su quelle tremende giornate senza conseguenze.
Quella che ormai sempre più risalta come un’avventura alla Mel Brooks, nonostante studiosi americani come Edward Luttwak sostengano che c’è del metodo in quella follia, non manca di precedenti nella storia americana. Basti tornare all’estate 1971, poco più di mezzo secolo fa, quando a sorpresa il presidente Richard Nixon sganciò il dollaro dall’oro, facendo schizzare al rialzo le valute dei concorrenti commerciali, in particolare Germania e Giappone, imponendo allo stesso tempo dazi del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti. L’obiettivo di Nixon era grosso modo lo stesso di Trump: supportare l’industria e l’occupazione nel suo Paese sottraendo ai concorrenti un vantaggio giudicato ingiusto. Anche allora ci fu caos, ma niente a paragone dello squilibrio provocato dagli stop and go, dalle ritorsioni e contro ritorsioni cui da mesi assistiamo quotidianamente. Allora la crisi risultò relativamente circoscritta anche per il fatto che la globalizzazione era agli esordi, e quindi mancava il veicolo capace di trasmettere alla velocità della luce gli scossoni dei mercati. Per di più la Cina era un grande paese agricolo e affamato, e l’India insieme al resto dell’Asia – ad eccezione del Giappone – non se la passava tanto meglio.
Ma non solo Nixon, perché c’è chi su una questione di dazi ci ha lasciato la pelle. Nel pantheon dei presidenti americani figura per esempio William McKinley, che tra il 1897 e il 1901 scatenò una guerra commerciale particolarmente aspra. Protezionista determinato oltre ogni ragione come Trump, nel suo ultimo discorso poco prima di essere assassinato confessò però di aver preso un abbaglio. «Le guerre commerciali non sono redditizie – disse – Una politica di buone volontà e di relazioni commerciali amichevoli impedisce rappresaglie». Dovremo attendere l’ultimo giorno di Trump perché anche lui confessa?
Tornando allo sconquasso odierno, c’è chi sostiene che la guerra dei dazi abbia portato anche del buono all’Unione europea, la cui tenuta è da tempo caracollante, non solo sul fronte dell’aggressione russa all’Ucraina o su quello della costituzione di una Difesa comune. Effettivamente all’inizio la scossa trumpiana ha portato nel caso degli europei immagini di solidarietà, perlomeno a parole, che non si vedevano dai tempi della lotta al Covid. È però bastato toccare il tasto del debito comune oppure della revisione del Green Deal in modalità più linea con le potenzialità effettive della nostra industria, per vedere risorgere da destra e manca vecchi vizi ideologici che non sono di buon auspicio. Per non dire della corsa a sedere accanto al camino della Studio Ovale, dove nonostante il viatico del presidente della Commissione Ursula von der Leyen e del cancelliere Friedrich Merz, Giorgia Meloni dovrebbe cedere il passo a Emmanuel Macron (ma non era finito politicamente?) per motivi che nessuno ancora ha capito. O meglio, per motivi che tutti capiscono benissimo. No, non è questa l’Unione Europea che piace a noi.
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