«Il 16 dicembre 2022, dopo aver completato l’aumento di capitale da 2,5 miliardi, cui aveva partecipato per la sua quota anche il Tesoro, incontrai il ministro Giorgetti e gli presentai tre opzioni. Ovvero, continuare da soli, fare un’operazione fra pari o in alternativa un’operazione con Mediobanca. Ora è il momento ideale per farla partire», aveva spiegato a gennaio il ceo di Banca Mps, Luigi Lovaglio, con quel suo tono di normalità a cui ci ha abituati nel mentre annunciava l’Ops su Piazzetta Cuccia. La dichiarazione aveva lasciato di stucco un po’ tutti: ma come, nel mentre la banca ancora si leccava le ferite provocate dai guai antichi, questo banchiere venuto da Varsavia, non proprio conosciutissimo, già pensava a scalare l’Everest? Di primo acchito, sembrò più una boutade, un’idea buttata lì al ministro nell’entusiasmo di una ricapitalizzazione il cui successo aveva richiesto non poca fatica. Invece, secondo alcune indiscrezioni raccolte da Moneta, era tutt’altro che una boutade. Ma partiamo dal contesto in cui quell’idea prende concretezza.
Il 6 dicembre 2022 il ministro dell’Economia conferma pubblicamente l’impegno del Tesoro a «uscire ordinatamente dal capitale di Mps, preservandone il valore e il ruolo di sostegno ai territori e alle imprese». Il 13 dicembre il titolo della banca scatta in Piazza Affari con un balzo del 5,2% attestandosi a quota 1,93 euro. Proprio in quei giorni il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, su quella poltrona dall’agosto 2018, è sotto spoil system (la pratica politica per cui i vertici della pubblica amministrazione vengono sostituiti al momento dell’insediamento di un nuovo governo). Iniziano a circolare le voci di un possibile spezzatino della banca senese o di un’eventuale cessione di una parte degli sportelli. Lovaglio si reca in via XX Settembre e a Giorgetti spiega la sua strategia, assicurando che l’istituto avrebbe raggiunto il miliardo di utile nel 2024 (che infatti verrà chiuso con 1,95 miliardi di profitti).
In quella presentazione c’è una slide in cui vengono sottolineati alcuni punti. Nel primo si suggerisce lo stop alla vendita ad altra banca e si definisce azzeccata la scelta di aver rifiutato l’offerta punitiva di Unicredit che nel 2021 Andrea Orcel aveva posto quale condizione per rilevare l’istituto; nel secondo si fa cenno agli svantaggi di procedere con uno spezzatino degli asset; nel terzo vengono indicate tre opzioni alternative. Una è la cessione tout court delle quote ancora in mano al Tesoro, la seconda prevede un cosiddetto merger of equals (una fusione tra pari), e poi c’è la terza proposta, la più dirompente: un transformational deal con Mediobanca mettendo insieme due brand storici con dentro anche l’investment bank. Superata rapidamente la sorpresa, per il ministro quel 16 dicembre 2022 diventa lo spartiacque tra il prima e il dopo, e valutati tutti i pro e i contro ecco prendere forma un piano carico di riferimenti biblici, dove non a caso Mps diventa Mosè: non è difficile intuire chi è il Faraone.
Due anni dopo Mosè ha messo in atto il suo piano, aprendo davvero le acque del Mar Rosso. L’offerta di Mps su Mediobanca è arrivata in un momento di consolidamento nel settore bancario italiano che l’Ops lanciata da UniCredit sul Banco Bpm ha fatto esplodere. Tutte le offerte arrivate sul parterre di Piazza Affari, ha spiegato Lovaglio in una recente intervista con ClassCnbc, «rappresentano solo la prima fase del consolidamento e, probabilmente, ne avremo una seconda tra un paio d’anni. Ecco perché, unendo Mps a Mediobanca, saremo in grado di essere di nuovo protagonisti». Un modo per posizionarsi nell’arena con altri obiettivi? A questo punto da Lovaglio ci si aspetta di tutto.
Sullo sfondo, c’è la storia della banca senese. Sono stati pubblicati molti libri, fatte molte inchieste, addirittura delle serie tv, sulla crisi del Monte dei Paschi innescata dall’acquisto di Banca Antonveneta, varato dall’allora presidente Giuseppe Mussari con il placet della Banca d’Italia guidata da Mario Draghi che poi ha portato all’ingresso dello Stato. Si è raccontato molto su cosa ha portato la banca senese sull’orlo del fallimento ma assai meno, al netto degli articoli di cronaca finanziaria, su come negli ultimi anni è stato gestito il risanamento dai nuovi manager chiamati al capezzale del Monte. Un risanamento lungo e complesso perché minato anche dalla pesante eredità del passato in termini di contenziosi legali che negli ultimi anni ha contribuito a spaventare possibili cavalieri bianchi. Ora con Lovaglio, l’istituto di Rocca Salimbeni ha disinnescato anche quella mina e non è più preda o banca “da maritare”. Ora è Siena Cacciatrice.
In città ricordano ancora lo spot del Monte realizzato sulle note della bellissima canzone di Franco Battiato “La Cura”. Una campagna pubblicitaria dal titolo eloquente: «Una storia italiana». Che sarà diversa da quella immaginata solo fino a qualche anno fa. Mps è sempre stata una banca diversa dalle altre per la simbiosi con la città e i suoi abitanti. Ci sono due categorie di senesi descritte ancora oggi dal vignettista Emilio Giannelli, quelli che lavorano al Monte e quelli che ci vorrebbero lavorare. Sono i traumatizzati dagli effetti dello scandalo Antonveneta, gli orfani di “Babbo Monte”, che ora quando incrociano Lovaglio nelle viuzze attorno alla sede della banca, gli vogliono stringere la mano e lo incoraggiano. Perché, spiega un amico senese, «per qualche anno ha prevalso la vergogna, ma adesso è tornato l’orgoglio, è stato un po’ come riavere indietro la vita».
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