Fanno riflettere le osservazioni del ministro Giancarlo Giorgetti sull’importanza relativa che assumono i dazi che Donald Trump vuole imporre al mondo intero, rispetto al pericolo rappresentato dalle criptovalute ancorate alle monete tradizionali che si vanno progettando a Washington. Fanno riflettere soprattutto di fronte al moltiplicarsi dei titoli di giornale sulla perdita di fiducia nel dollaro come valuta di riserva nei regolamenti finanziari e commerciali. Il ministro si dice consapevole che al momento si tratta di timori verso un’astrazione, ma se il Genius Act, ovvero la nuova normativa americana che regolamenta le stablecoin in dollari, manterrà le sue promesse, i risparmiatori di tutto il mondo avranno la possibilità di investire in attività sostanzialmente prive di rischio che, al contempo, sono un mezzo di pagamento ampiamente accettato per le transazioni internazionali, fungendo così da moneta comune. Tutto ciò senza la necessità di accendere un conto corrente presso una banca statunitense. Caratteristiche tutte che rendono facile prevederne il successo. Persino i cittadini della zona euro, che ora sembrano confortati dalla solidità della loro moneta, ne apprezzerebbero il fascino, soprattutto se il nostro sistema di pagamenti al dettaglio continuerà a essere frammentato e privo di soluzioni in grado di coprire tutti i casi possibili.
L’antidoto contro questo nuovo strumento – che attraverso le stablecoin denominate in dollari contribuirebbe a consolidare l’egemonia americana – non può che essere sul piano della moneta. Sicché, secondo Giorgetti la risposta europea deve basarsi sulla protezione e promozione dell’euro come valuta di riferimento internazionale, intensificando anche gli sforzi di comprensione tra i cittadini delle potenzialità dell’euro digitale. Il tempo dirà.
Le osservazioni di Giorgetti sono doppiamente interessanti perché sembrano dare per scontato che il dollaro, nonostante lo sconquasso di queste settimane e qualche crepa nella sua credibilità, alla fine riesca a mantenere il suo vigore di moneta di riferimento. Un pensiero che contrasta con le previsioni che stanno diffondendo i media mainstream.
Ora, qualunque cosa si pensi della diagnosi e della terapia prescritta dall’amministrazione americana – e noi non siamo stati teneri nel giudizio sullo sconquasso che ha provocato – il suo obiettivo è dichiarato in modo esplicito: spostare la struttura del commercio globale e degli investimenti diretti esteri a favore degli investimenti e dell’occupazione negli Stati Uniti. Tuttavia, secondo il Nobel Michael Spence, questo programma si scontra con un potente vento contrario, dovuto all’attrattiva globale del debito e delle azioni quotate a Wall Street e allo status del dollaro come valuta di riserva globale. Dunque, a meno che gli Stati Uniti non riducano intenzionalmente l’appeal delle attività denominate in dollari, il che è del tutto inverosimile, è assai improbabile che lo status di valuta di riserva del dollaro cambi: non accadrà domani, e possiamo essere certi nemmeno dopodomani.
Potrà subire scosse, diventare bersaglio temporaneo della speculazione, ma al momento non esiste un’alternativa plausibile. Un’economia globale in crescita ha bisogno di una base monetaria in espansione per funzionare. E poiché lo yuan, la moneta cinese, è attualmente improponibile per mille e una ragione far quel ruolo, non resterebbe che l’euro: con un mercato alimentato da oltre 500 milioni di consumatori, probabilmente il più grande e il più spendaccione al mondo, noi europei ambiremmo vederlo circolare ovunque, ma al momento non ha alle spalle né la forza finanziaria né la solidità politica necessaria. Ne riparleremo più avanti, quando l’euro digitale sarà diventato una realtà e gli eurobond non saranno più un argomento divisivo.
Ma c’è un motivo ulteriore per il quale difficilmente vedremo cadere la stella del dollaro. Ed è il grado di solidità dell’economia americana, che la narrazione trumpiana ci ha presentato come un Paese aggredito e spogliato di ogni bene da amici e nemici. Dietro questa narrazione volutamente esagerata, c’è evidentemente quella che potremmo definire la «paura di perdere» degli americani nel confronto con la Cina, le cui tecnologie produttive, a cominciare da quelle elettroniche e informatiche, sono in grado di competere seriamente con quelle degli Stati Uniti. I cinesi, inoltre, vantano le più grandi riserve al mondo delle materie prime necessarie per i nuovi settori, a cominciare dalle cosiddette terre rare. La dichiarazione di guerra per il tramite di dazi universali doveva perciò essere supportata da argomenti apparentemente solidi, come lo sono quelli di un Paese aggredito che decide di difendersi con le unghie e con i denti.
A confutare quella narrazione è scesa in campo la Banca mondiale, finora pressoché ignorata (in Italia solo il Corriere della Sera ne ha dato conto), che offre uno spaccato dell’economia americana negli ultimi decenni. Così scopriamo da una fonte che si presume al di sopra delle parti, che ad aver guadagnato quote di mercato è stato soprattutto il Paese oggi guidato da Trump. Basti dire che nel 2008 il Pil degli Stati Uniti era pari a quello dell’Eurozona: circa 14mila miliardi di dollari. Quindici anni dopo, nel 2023, mentre l’Europa si è mossa come una lumaca realizzando poco più di 15mila miliardi, il Pil americano è balzato a quota 27mila miliardi. Non basta. Nel 1990 il salario medio annuo in America si aggirava intorno a 53mila dollari, 10mila in più rispetto alla media dei 38 Paesi indagati dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Nel 2023 la forbice si è ulteriormente allargata: lo stipendio medio negli Stati Uniti ha toccato quota 80mila dollari, quello medio dell’Ocse è salito a un ritmo più lento, attestandosi a 58 mila dollari. Infine, il dato forse più sorprendente, aggiornato al 2024: il reddito pro capite dello Stato più povero degli Stati Uniti, ovvero il Mississippi, è stato pari a 53mila dollari, una cifra superiore a quella di Regno Unito (52mila dollari), Francia (48mila dollari), Italia (40mila dollari), Spagna (35mila dollari). Gran magra consolazione, solo la Germania va un po’ meglio del fanalino di coda degli Usa. Tutto ciò per dire che immaginare un dollaro spogliato dal suo ruolo globale è un’immagine che non è ancora stata dipinta.
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