La crisi dei dazi sta facendo vacillare più di una certezza. A scricchiolare, e non poco, sono alcuni dei porti sicuri per eccellenza. Se l’oro emerge ancora una volta come il re dei beni rifugio a suon di record, non può dirsi lo stesso per il dollaro statunitense e i Treasury, andati entrambi al tappeto fragorosamente. Il biglietto verde è crollato del 10% in pochi mesi e contestualmente i rendimenti dei titoli del Tesoro Usa a 10 e 30 anni sono aumentati di circa 50 punti base, al 4,5% e al 4,9%, segnando nella seconda settimana di aprile il loro maggiore rialzo in quattro decenni. Il tutto in coincidenza con l’escalation delle tensioni commerciali e geopolitiche. Per ammissione dello stesso Donald Trump, sono state proprio le tensioni sui Treasury a indurre la Casa Bianca a congelare i dazi reciproci per 90 giorni.
RIFUGIO DIGITALE?
Insieme all’oro e al franco svizzero, c’è un altro asset che si è mostrato resiliente durante la burrasca post 2 aprile: il Bitcoin. La tanto discussa valuta digitale sta smentendo, nel breve, l’assunto che nelle passate crisi lo aveva visto seguire le discese dei mercati azionari, anzi amplificandone in peggio i movimenti. L’asset digitale si era affacciato al mese di aprile in area 82 mila dollari, salendo fino a 85mila a metà mese. Nel mentre non sono mancati gli scrolloni al ribasso, ma lo sbandamento è stato solo temporaneo. «Dal Liberation Day del 2 aprile i mercati azionari hanno registrato un’impennata della volatilità, superando anche il Bitcoin, la cui volatilità ha segnato invece un calo», evidenzia James Butterfill, head of research di CoinShares. Quello che è emerso è in particolare un netto calo della correlazione tra Bitcoin e Nasdaq – storicamente è tendenzialmente alta – proprio nella fase più acuta dei ribassi (tra il 3 e il 7 aprile) di fronte all’escalation del rischio geopolitico.
Rispetto alle passate crisi, il Bitcoin sta mostrando una certa resilienza, anche se a tutt’oggi rimane ancora un asset correlato ai cicli di liquidità. Mentre l’oro veleggia sui massimi storici, il suo aspirante alter ego digitale è invece lontano dagli oltre 100mila dollari toccati a inizio anno. «Questa divergenza riflette l’identità in evoluzione di Bitcoin, non ancora un asset completamente risk-off, ma sempre più visto dagli investitori di lungo termine come una copertura strutturale contro il malfunzionamento sovrano», asserisce Ayush Tripathi, research analyst Europe di Bitwise.
L’INVESTITURA DA POWELL
Da tempo ormai riecheggia l’etichetta di ‘oro digitale’ per la criptovaluta numero uno al mondo, che, come principale elemento di comunanza con il metallo giallo, ha sin dalla sua nascita la sua «scarsità». Non per nulla vengono chiamati miners (minatori) le persone o aziende che ‘estraggono’ nuovi Bitcoin (lo fanno risolvendo problemi matematici complessi) in modo simile a come si estrae l’oro da una miniera. Nella schiera di chi ha dato credito alla possibilità di far sedere la regina delle cripto allo stesso tavolo dell’oro spicca anche Jerome Powell. Il presidente della Fed ha parlato di Bitcoin come un concorrente dell’oro, non del dollaro statunitense. Quindi un asset finanziario, non una valuta. «È come l’oro, solo che è digitale. Le persone non lo usano come forma di pagamento o come riserva di valore», la netta asserzione di Powell. Di parere differente Larry Fink, storico numero uno di BlackRock, che nella sua lettera agli azionisti non esclude la possibilità che la criptovaluta vada a sostituire in futuro il dollaro come valuta di riserva globale in mezzo al crescente debito degli Stati Uniti. Proprio BlackRock, il più grande gestore di fondi al mondo, ha accostato il Bitcoin all’oro in qualità di ‘diversificatore’ dei portafogli d’investimento alla luce della correlazione limitata con le azioni. Inoltre, in un contesto di inflazione persistente, complici i potenziali effetti dei dazi, i titoli di Stato potrebbero non proteggere efficacemente da eventuali correzioni azionarie e quindi gli asset in grado di essere un reale rifugio andrebbero ad assottigliarsi sempre di più. Trump ha dato un segnale indicando di mantenere i 190mila Bitcoin in mano al governo americano come riserva di valore e «quindi sempre di più viene visto, almeno dagli operatori qualificati, come asset decorrelato che può proteggere dal rischio inflazione e anche dal rischio crisi del debito», spiega Daniele Bernardi, ceo di Diamon Partners. Se l’esperienza delle passate crisi ci dice che il Bitcoin non è stato in grado di proteggere il portafoglio, l’attuale panorama in evoluzione rende arduo capire in che misura la valuta digitale possa superare immune il test come bene rifugio. Quello che è chiaro è che il vecchio copione di cosa sia il rifugio sicuro sta cambiando molto velocemente.
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