Sono trascorsi quarant’anni da quando, nel capolavoro cinematografico di Ridley Scott, Blade Runner, il replicante Roy rivolse al suo creatore della Tyrrel Corporation la fatidica frase: «Io voglio più vita, padre». Quarant’anni dopo, per una curiosa similitudine, la prima opera d’arte creata interamente da un automa ribattezzato «Ai-Da» e aggiudicata dalla casa d’asta Christie’s a 1,1 milioni di dollari, è un surreale ritratto del papà dell’informatica, Alan Turing. Si tratta del prezzo più alto per un’opera generata dall’intelligenza artificiale dopo quella del collettivo francese Obvius, il «Ritratto di Edmond Belamy» venduto a un’asta di New York nel 2018 per 432.500 dollari.
L’opera aggiudicata da Christie’s lo scorso novembre e generata da un team di programmatori, esperti d’arte e psicologi (i creatori di «Ai-Da», appunto), è considerata una pietra miliare sulla controversa invasione dell’intelligenza artificiale nel mercato dell’arte. L’ultima, invece, è solo di qualche settimana fa quando la stessa Christie’s ha battuto a New York la prima asta interamente dedicata all’IA che comprendeva trenta lotti di artisti digitali affermati come Refik Anadol, Claire Silvercon o Jesse Wolston, per una vendita complessiva di 728.784 dollari e centinaia di offerte, per una buona metà da nuovi acquirenti “millennial” e della “generazione zeta”. Tra le vendite più alte hanno figurato «Machine Hallucinations» dello stesso Anadol (227.200 dollari per un “dipinto dinamico” che utilizza un set di dati di oltre un milione di immagini scattate dai satelliti), e «Embedding Study 1 & 2» di Holly Herndon e Mat Dryhurst, 94.500 dollari per un surreale doppio ritratto della stessa Holly, artista multimediale tedesca che indaga sulle alterazioni dell’identità.
A proposito dell’utilizzo di “data”, merita forse ricordare che una class action di tremila artisti “analogici” aveva invano tentato di far bloccare quell’asta denunciando la violazione delle norme sul copyright: «Molte delle opere – scrissero in una lettera gli artisti, tra cui Karla Ortiz e Kelly McKernan -sono state create con modelli di intelligenza artificiale addestrati su immagini protette da copyright senza licenza, dunque le aziende coinvolte sfruttano il lavoro degli artisti umani per costruire prodotti commerciali». Ecco un problema, che si era già manifestato in modo eclatante nel gennaio dello scorso anno con la denuncia di quasi ventimila artisti contro le compagnie di IA Midjourney, Stability AI, Runway Ai e DeviantArt, accusate appunto di saccheggiare («raschiare», nel termine tecnico) migliaia di immagini di celebri autori – da Andy Wahrol a Frida Kahlo – al fine di addestrare i programmi a “creare” opere e addirittura a imitare gli stili. La causa legale è in corso (con prove, pare, inconfutabili). Inutile dire però che, così come si era già verificato ai tempi di Walter Benjamin quando l’arte tuonava contro la “riproducibilità tecnica” della fotografia, quella contro le minacce della tecnologia è una battaglia disperata, e infatti l’asta si è regolarmente tenuta, nonostante i risultati siano stati inferiori alle attese.
L’arte digitale corre con l’escalation della IA, cercando nuovi modelli e nuovi sbocchi sul mercato, soprattutto dopo il flop economico degli Nft, i «Non-Fungible Token», che quattro anni fa vennero presentati sul mercato globale come la grande rivoluzione del collezionismo del nuovo millennio. Il passo indietro è doveroso per chiarire come il mercato dell’arte digitale stia cambiando. L’11 marzo 2021 sembrava una data storica quando Christie’s aggiudicò l’opera digitale «Everydays, the first 5000 days», un collage di 5000 immagini dell’artista Beeple, alla cifra astronomica di 69 milioni di dollari. Era in realtà la preistoria poiché il valore attribuito a quell’opera era strettamente connesso al suo format, ovvero al certificato di proprietà registrato sulla blockchain e anche connesso al fatto che fosse la prima volta che la criptoarte veniva battuta a un’asta.
La grande corsa agli Nft da parte del mercato dell’arte franò miseramente solo un anno dopo con la crisi delle criptovalute, rivelando la sua anima prettamente speculativa: le criptotransazioni scivolarono del 97% lasciando con il cosiddetto cerino in mano 23 milioni di collezionisti. Oggi, invece, il mercato dell’arte digitale è tutto concentrato sulle infinite possibilità dell’IA di generare opere robotiche. L’ultima asta di Christie’s è solo un esempio: la fiera «Art Dubai» che si è conclusa proprio in questi giorni, ha presentato una sezione interamente dedicata all’arte digitale, a dimostrazione che anche il mercato arabo – su cui oggi sono accesi i riflettori internazionali – ne è molto affascinato. Il fatto è che malgrado le denunce contro il presunto saccheggio di immagini (l’ufficio copyright degli Stati Uniti ha appena stabilito, guardacaso, che un’opera generata solo da IA non può avere diritti di copyright) le opere digitali sono ormai state sdoganate anche dai grandi musei. Come il Moma, che ha acquisito «Unsupervised», opera dinamica del turco Refik Anadol che su un display di quasi sette metri genera colori dall’elaborazione di tutte le opere della collezione del museo. O come il Denver Art Museum che espone un video ipnotico di cinque minuti intitolato «Us» realizzato dalla poetessa Jennifer Foerster, le cui parole vengono animate da due software orchestrati dall’artista Steve Yazzie.
Arte o speculazione? La critica internazionale sta a guardare, anche se forse il vero rischio è quello manifestato dagli esperti dell’ultimo report Deloitte sul mercato dell’arte: l’utilizzo dell’IA potrebbe generare opere sempre più simili tra loro orientando il pubblico e prevedendo i gusti del mercato, proprio come fanno le piattaforme televisive. Risultato: un’arte standardizzata che va a minare il valore stesso di un artista, la sua unicità.
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