C’è un grande disegno per riportare sui binari il mondo delle tlc italiane. Gli ostacoli sono pochi, ma nei prossimi mesi il piano arriverà alla fase decisiva. Da una parte c’è Tim, dove si è già fatto tanto: lo scorporo della rete con la vendita al fondo Kkr, la sostanziale uscita di Vivendi dal capitale e l’ingresso di Poste Italiane fino al limite del 25%. Ora è arrivato il momento del grande passo, ovvero il consolidamento con la riduzione del numero degli operatori da quattro a tre (sotto l’egida del ministero dell’Economia, sono già iniziati i primi dialoghi tra Poste e Iliad). Sull’altro versante c’è il dossier rete unica, ovvero il progetto di riunire sotto lo stesso tetto Open Fiber (che ha tra gli azionisti Cdp al 60% e il fondo australiano Macquarie al 40%) e Fibercop, la società cui fa capo l’ex rete di Tim che vede tra i suoi soci Kkr (al 37,5%), il Mef (16%) e F2i (11,2%).
Il dossier, seguito dal vicedirettore generale di Cdp Fabio Barchiesi, si prepara a entrare nel vivo. Una volta chiusa la partita con il rifinanziamento delle banche, i primi contatti informali tra gli azionisti Kkr e Cdp sono avviati. Nel frattempo, le due aziende rimangono rivali, con Fibercop che ha chiesto al governo di subentrare a Open Fiber sugli appalti della fibra finanziati dal Pnrr. Nella fase clou, uno degli aspetti più difficili sarà determinare quanto vale una società e quanto vale l’altra, poiché da questo dipenderanno i pesi dei soci e, di conseguenza, la governance.
Il monopolio naturale
Il vero problema, tuttavia, è legato alle aree nere gestite da Open Fiber (39mila chilometri in zone altamente popolate), un gioiello che vale non meno di 3 miliardi ed è il vero pezzo pregiato di tutta l’operazione. A quanto filtra, il Mef sta conducendo alcuni sondaggi preventivi con la Dg Competition, vale a dire l’Antitrust europeo. Un passaggio propedeutico essenziale, perché conoscere gli umori di Bruxelles preventivamente è un viatico fondamentale per sapere quale operazione proporre. Tra le tesi sostenute c’è che in Italia si sia venuto a creare una sorta di monopolio naturale, dal momento che la via del mercato e della concorrenza è già stata battuta con l’era dei due operatori (Open Fiber e Fibercop, per l’appunto) giudicata non sostenibile. Se ciò fosse riconosciuto da Bruxelles – i cui nuovi orientamenti sono parecchio distanti dai rigori introdotti dall’ex commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager – allora l’operazione andrebbe in discesa, dal momento che le correzioni risulterebbero minime o assenti e sarebbe più facile mantenere tutti gli investitori a bordo in un gioco conveniente per tutti.
Un vantaggio strategico sarebbe nel fatto che il competition chief economist della Dg Comp è un italiano e si chiama Emanuele Tarantino, un docente dell’Università Luiss che è stato anche Academic Advisor della Banca di Spagna. Ciò non vuol dire ottenere trattamenti di favore, ma quanto meno dovrebbe sgomberare il campo da posizioni ideologiche e preconcette riguardo a un’eventuale operazione di aggregazione fra Tim e Iliad da un lato, Fibercop e Open Fiber dall’altro. A questo si aggiunga il fatto che, negli ultimi mesi, si è compreso appieno che avere operatori di tlc forti (in grado di fare gli investimenti necessari per portare avanti la digitalizzazione dell’Europa) è fondamentale per non rimanere schiacciati a livello tecnologico da Stati Uniti e Cina. Ergo, si cercherà di agevolare tutto quello che potrebbe portare a un consolidamento funzionale in questo senso.
Lo snodo di Tim e Iliad
Un altro scenario possibile è prevede che l’Antitrust Ue decida di imporre rimedi sia per la partita Tim-Iliad sia per quella Fibercop-Open Fiber. In tal caso, il progetto andrebbe comunque avanti, ma le trattative diventerebbero più lunghe e difficili. In entrambi i dossier un modello di riferimento possibile è quello seguito nel campo dell’energia, quelli di Eni ed Enel che sono casi di successo, dove l’azionista pubblico ha una quota di minoranza che gli garantisce comunque il controllo dell’azienda. In particolare, da un lato Iliad vorrebbe entrare nell’azionariato di Tim valutando 4,5 miliardi la sua società e, dall’altro, come suo costume il gruppo francese fondato da Xavier Niel vorrebbe poter guidare l’azienda o comunque avere un ruolo importante nella governance.
Difficile che Poste, dopo aver acquisito una quota così importante, decida di rinunciare al controllo del gruppo. Certo è che si potrebbe lavorare su patti parasociali, a prescindere dalle quote effettive dei soci, secondo i quali l’azionista pubblico ha una golden share e potere di veto sulle politiche del personale (prima preoccupazione al Mef) mentre Iliad potrebbe esprimere, di comune accordo con Poste, l’amministratore delegato.
Il modello energia è già stato intavolato per quanto riguarda Fibercop, dove di fatto l’azionista pubblico ha poteri speciali che gli consentono di avere il controllo dell’infrastruttura pur avendo una quota minoritaria. E continuerebbe a essere così anche post fusione con Open Fiber, andando a creare un attore che sarebbe in grado di sprigionare sinergie miliardarie, oltre a sbloccare un pagamento aggiuntivo di 2,5 miliardi per Tim (collegato proprio alle nozze tra gli operatori della fibra).
Risollevare un settore
A consolidamento avvenuto, il governo Meloni potrebbe intestarsi il risanamento di un settore affossato da un processo di privatizzazione di Telecom andato male e da decisioni dell’Antitrust europeo rivelatisi quantomeno infelici.
Non solo: l’ovvia conseguenza di questa operazione di politica industriale sarebbe di portare Tim a rivalutarsi considerevolmente in Borsa, rimettendo in sesto un campione nazionale in grado di giocare le sue carte nell’avvio del consolidamento del settore a livello europeo.
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