C’è un nuovo campo di battaglia nel guerra “fredda” commerciale tra Cina e Usa che rischia di travolgere anche i colossi europei della moda. Sono i cosiddetti feed di TikTok usata da 170 milioni di americani che, ricordiamolo, è controllata dalla cinese ByteDance. Da settimane influencer e sedicenti fornitori cinesi hanno inondato i social media americani, esortando gli utenti ad aggirare i dazi imposti dal presidente Donald Trump a Pechino acquistando direttamente dalle loro fabbriche.
Alcuni dicono di voler smascherare la truffa che c’è dietro al lusso: denuncerebbero borse prodotte in Cina e spedite in Europa per poi applicarvi le etichette made in Italy o made in France. La strategia è chiara ed è autopromozionale: mettere in discussione l’artigianalità del lusso europeo per vendere imitazioni a prezzo scontato. Con un altro messaggio più politico per gli utenti americani: la Casa Bianca insiste sul fatto che le sue politiche economiche mettono l’America al primo posto, quelle stesse politiche faranno sì che i consumatori Usa perdano l’accesso ai loro prodotti preferiti o li paghino di più.
Basta digitare “China” sulla barra delle ricerche del social network e spuntano decine di video, con immagini diverse ma lo stesso copione: «Vedete questa borsa made in che da voi costa tot dollari? In realtà viene prodotta qui in Cina e noi la vendiamo a un terzo».
E poi ecco il messaggio: «Portano le borse quasi finite dalla Cina, poi aggiungono il logo e il packaging finale». Il creator più virale – i suoi video hanno avuto milioni di visualizzazioni – si chiama Wang Sen e fa circolare video da Guangzhou con il marchio Sen Bags, sostiene di lavorare per la maggior parte dei marchi di lusso, mostra borse come la Rodeo di Balenciaga, le Birkin e le Basket di Hermès. Lo stesso Wang però lo ritroviamo, con un altro nome, a fare video con messaggi identici per le auto in una concessionaria locale. E come lui ci sono tanti altri “produttori” e “artigiani” cinesi che spammano TikTok con decine di video dai testi molto simili – puntualmente tradotti in inglese – in una campagna palesemente coordinata. Dove non si mostrano i contratti di fornitura o le fatture, solo il prodotto finito.
Ma come funziona la catena produttiva del lusso? Prendiamo l’esempio di Hermès: per la nota maison francese la formazione degli artigiani è fondamentale, ogni nuovo collaboratore inizia con la realizzazione del modello Kelly, considerato il più complesso, e richiede circa diciotto mesi per acquisire le competenze necessarie. Per raggiungere la maestria completa, possono essere necessari fino a dieci anni di esperienza.
Hermès gestisce oltre cinquanta siti produttivi, principalmente in Francia e specificati con tanto di mappa, ai quali si aggiungono dodici poli manifatturieri localizzati in Svizzera, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Portogallo e Australia. Hermès, inoltre, ha una propria conceria che realizza pellami che nessun altro può comprare.
Altro esempio: Gucci, marchio oggi controllato dal colosso Kering, ha il 95% dei fornitori in Italia. Le borse, come la Bamboo 1947, sono realizzate interamente nel nostro Paese, dall’assemblaggio alla rifinitura finale. I danni alla reputazione delle grandi maison del lusso, però, rischiano di essere pesanti perché la maggior parte delle persone non sa come vengono realizzati i prodotti e non è in grado di giudicarne la qualità. Insomma, si fidano più dei video fotocopia dei presunti produttori cinesi su Tik Tok che di Bernard Arnault. Lo si intuisce dai commenti, e dalle migliaia di “like”, a questi video.
«I consumatori iniziano a dubitare che un prodotto valga dieci volte il suo costo di produzione. Certo, il valore di una Birkin autentica va oltre i materiali – è status, esclusività, investimento – ma quando i prezzi raggiungono livelli astronomici senza giustificazioni tangibili, il modello inizia a scricchiolare», spiega a Moneta Marzio Morgante, Managing Partner di ATA (Asian Tax Advisory), società di consulenza specializzata nell’assistenza a imprese e investitori privati. «Chi cerca alternative in Cina spesso trova solo delusioni ovvero qualità incerta, rischi doganali e prodotti privi di quel valore simbolico che rende il lusso desiderabile. Ma il vero problema per i brand non sono le imitazioni, chi può permettersi l’originale continuerà a comprarlo, bensì la necessità di ripensare politiche di pricing ormai insostenibili. Negli ultimi anni, i rincari hanno trasformato borse e accessori in beni rifugio più che in prodotti di moda. Questo approccio rischia di alienare persino la clientela fedele, soprattutto tra le nuove generazioni più sensibili al valore reale degli acquisti».
Secondo Morgante, la vera sfida sarà «trovare un equilibrio, mantenere l’esclusività senza ridursi a beni speculativi, investendo su vera artigianalità e innovazione anziché su logiche puramente speculative». Nel frattempo, non sono solo le copie a minacciare il lusso occidentale, ma l’ascesa di brand cinesi che offrono qualità elevata a prezzi umani, con identità autonoma e senza complessi di inferiorità. «Se Hermès e gli altri non rivedranno le loro strategie, sia di produzione sia di prezzo, rischiano di ritrovarsi schiacciati tra due fuochi. Da un lato l’irrilevanza per i giovani consumatori, dall’altro la concorrenza di nuovi player asiatici che stanno scrivendo le regole del lusso del futuro», aggiunge Morgante.
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