“Finora la Juventus era una sofferenza ma questi nuovi dirigenti mi hanno dimostrato che può essere un affare”. Gianni Agnelli si trovava a Londra, nell’autunno del 1996, come vicepresidente dell’Aume, l’associazione della moneta unica europea. Incontrando i giornalisti, dopo aver affrontato i problemi legati al progetto dell’euro, si era soffermato sul nuovo corso del club di calcio, punto di riferimento della famiglia. La Juventus era dunque passata da una gestione squisitamente sportiva, caratterizzata anche dai risultati agonistici, durante la gestione di Giampiero Boniperti, a quella decisamente imprenditoriale del fratello dell’Avvocato, Umberto Agnelli, il Dottore.
Il football europeo, quello italiano in particolare, viveva una realtà finanziaria particolare, le società calcistiche erano senza fini di lucro, Juventus godeva dei finanziamenti della famiglia Agnelli, la proprietà del club era divisa tra Ifi (50%) e Fiat (50%), la situazione patrimoniale, a metà degli anni Novanta, non era brillante: convertite le lire in euro, 25 milioni il fatturato, il sesto in Italia, 40 milioni le perdite, 45 milioni i debiti. Quando venne deciso di passare la gestione a Umberto, il Dottore scelse il proprio uomo di fiducia, Antonio Giraudo, per dare vita alla trasformazione del club.
Giraudo, tifoso del Torino, era tra i dirigenti della Fiat, il suo passaggio alla Juventus provocò la svolta: Cesare Romiti, protagonista di numerosi scontri con il nuovo amministratore delegato bianconero, annunciò che Fiat sarebbe uscita da Juventus. Fu allora affidata una perizia sulla valutazione della società: 40 milioni la cifra definita. Ifi rilevò il 50% pagando 20 milioni a Fiat, Romiti pensò di avere evitato un danno e di avere centrato un affare.
Il progetto di Giraudo, affiancato nell’opera da Adriano Galliani, alto dirigente del Milan di Silvio Berlusconi, fu di passare al secondo step: trasformare le società senza fini di lucro, in società con fini di lucro per poi arrivare alla società per azioni. Juventus affiancò a risultati sportivi, nazionali e internazionali, un significativo aumento del valore azionario: in cinque anni arrivò a sfiorare 480 milioni (il solo ricordo dei 20 milioni incassati da Cesare Romiti confermò la miopia finanziaria, oltre alla protervia caratteriale, del braccio destro dell’Avvocato).
Juventus, dunque, prese a creare valore, il progetto prevedeva un centro sportivo, un centro commerciale, rispetto all’epoca bonipertiana la realtà economica e il terreno di lavoro delle società calcistiche erano completamente mutate. Se allora Fiat, all’apice della sua presenza e importanza sul mercato dell’automotive, “giocava” con Juventus mettendo a disposizione capitali senza alcuna prospettiva economica se non essenzialmente sportiva e di prestigio, Umberto Agnelli constatava l’evoluzione dovuta ai nuovi investitori, ai diritti televisivi, al marketing, alle sponsorizzazioni, era lo show business.
Dunque, la semplice football company, diventava media company e poi entertainment company, imprese nelle quali erano necessarie competenze e capacità gestionali su un terreno sconosciuto ai più, con rischi contabili evidenti e che al tempo stesso segnavano il tramonto e la fine di un mecenatismo fuori epoca.
Se Silvio Berlusconi decise di investire nel Milan, costruendo una squadra irresistibile, protagonista sullo scenario mondiale, questo rispondeva al suo progetto politico: il Milan ebbe, per l’appunto, conseguenza manifesta nel trionfo elettorale del presidente rossonero. Così non accadde con Massimo Moratti, anch’egli come Agnelli, erede di una tradizione famigliare illustre in nome del padre Angelo, l’Inter ritrovò una illuminazione internazionale, assoluta attrice non soltanto in Italia, e con gloriose performance calcistiche alle quali corrisposero, tuttavia, squilibri contabili sempre più pesanti che portarono poi alla cessione del club, così come avvenuto per il Milan.
Di contro Juventus produceva risultati e utili fino allo tsunami del 2006, lo scandalo di Calciopoli, la retrocessione della squadra, i provvedimenti disciplinari della giustizia sportiva nei confronti dei dirigenti, senza trascurare, anzi elemento decisivo per la storia e per la lettura degli avvenimenti successivi, la scomparsa dei fratelli Agnelli, Gianni nel 2003, Umberto nel 2004. La vicenda giudiziaria, dietro la quale si intravidero le ombre di alcune figure del mondo Fiat (Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens, Luca di Montezemolo) che non accettarono mai l’ascesa nel gruppo di Umberto Agnelli – e dunque di Antonio Giraudo – portò al crollo del titolo in Borsa quando il valore di Juventus era ancora solido e il fatturato aveva raggiunto 251 milioni, il terzo in Europa alle spalle di Real Madrid e Manchester United.
Gli ultimi disegni progettuali avevano previsto anche la costruzione dello stadio (non del tutto condivisa dalla proprietà) poi realizzato con diverse controindicazioni strutturali rispetto al progetto d’avvio. John Elkann, nuovo dominus per eredità e scelta dell’Avvocato, liquidò, anzi non tutelò la dirigenza (come invece accadde in Fiat con alcune figure coinvolte in Tangentopoli) e affidò la gestione di Juventus a un conoscente francese, Jean-Claude Blanc, assolutamente ignaro del mondo calcistico, e a Giovanni Cobolli Gigli, juventino di fede, amico della famiglia ma anch’egli non del tutto pronto ad affrontare la nuova realtà finanziaria con le scorie dei processi.
I deludenti risultati sportivi convinsero Elkann a consegnare il club al cugino (di secondo grado) Andrea Agnelli. Il figlio di Umberto, che aveva seguito per passione calcistica e periodo di stage la precedente gestione, tentò di rilanciarla: ai clamorosi risultati sportivi, nove scudetti consecutivi, due finali di Champions League, l’inaugurazione del nuovo stadio, seguirono l’idea romantica, soltanto romantica, della “Continassa“, un’area abbandonata che sarebbe diventata il centro sportivo della squadra (pur restando attivi i campi di Vinovo, riservati al settore giovanile), il J medical, il J hotel. Tutte iniziative ottime per l’immagine ma negative per i costi, uno scenario esterno che ha mascherato i guai interni, facendo così dimenticare l’equilibro contabile, elemento caratteristico del decennio precedente.
I bilanci sono così stati devastati, Juventus ha costretto proprietà e azionisti a continui finanziamenti che hanno sfiorato il miliardo, ciò nonostante la situazione registra ancora perdite e debiti, mentre i nuovi gestori, pendente la squalifica e la vicenda legale della precedente dirigenza, hanno deleghe per rimettere in sesto il bilancio ma non hanno conoscenza del sistema calcio, sicché Juve ha perso peso politico, istituzionale e di mercato. Fino al punto che Elkann è stato costretto a dirottare definitivamene Maurizio Scanavino dalla guida di Gedi (ovvero la Repubblica) a quella di Juventus.
Per avere idea del disastro, basti dire che per un anno non è stato trovato lo sponsor, dato inedito e segnale di forte debolezza d’immagine. Al punto che la proprietà è dovuta intervenire con il marchio Jeep e 20 milioni cash di appoggio (meno della metà del precedente impegno); impegnata con il 63,8% di Juventus, Exor ha anche provveduto con un immediato rafforzamento patrimoniale di 15 milioni (per dare respiro alla cassa vuota) preannunciando, se non dovesse arrivare la qualificazione alla prossima Champions League, un nuovo aumento di capitale. Magari con il coinvolgimento di un fondo d’investimento in vena di avventure.
I membri della famiglia Agnelli non sono più disposti ad esporsi per un’azienda che non produce risultati né sportivi né economici. Intanto si muovono nuovi piccoli azionisti, per ora di propaganda, entrando in scena con le criptovalute. Il giro d’affari è sceso da 507,7 a 394,5 con costi addirittura superiori ai ricavi. Il futuro è nei piedi dei calciatori e nella fede di Elkann. Ripensando alle parole dell’Avvocato, nel lontano pomeriggio londinese, oggi Juventus è di nuovo una sofferenza ma non è più un affare.
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