L’università più prestigiosa degli Stati Uniti ha ingaggiato un corpo a corpo con Donald Trump che dirà molto sul futuro dell’America. In un mondo in cui tutto è scontro e polarizzazione, capire la natura dell’ateneo è fondamentale per avere un’idea dei grandi chiaroscuri che lo circondano. Perché nei giorni delle scintille con la Casa Bianca, Harvard è diventata una degli alfieri della resistenza contro il tycoon, eppure nelle scelte dell’università c’è qualcosa che stride con i valori morali che vorrebbe incarnare, e che arriva fino alla finanza speculativa.
Per capirlo bisogna avere un’idea di come funziona il bilancio dell’università privata simbolo delle élite americane. In breve, l’ateneo di Cambridge (Massachusetts) è un’azienda che gestisce e smuove molti miliardi di dollari. I soldi arrivano da una varietà di fonti. Ci sono donazioni generiche, fondi federali, oltre alle tasse di iscrizione degli allievi che sfiorano, comprese di vitto e alloggio, 100mila dollari l’anno. La fetta più sostanziosa è quella dell’endowment, cioè il fondo di dotazione. Secondo i dati fiscali del 2024, ha toccato quota 53,2 miliardi di dollari.
Ma leggendo il bilancio si scoprono altre cose interessanti. Le ridistribuzioni dei fondi di dotazione lo scorso anno hanno sfiorato quota 2,4 miliardi, pari al 37% di tutte le entrate spese per far funzionare l’università. «In generale», si legge nel rapporto, «l’ammontare annuo dei dividendi erogati dallo sfruttamento del fondo di dotazione corrisponde a circa il 5-5,5% del suo valore di mercato». Questi fondi non rappresentano però un portafoglio come tutti gli altri e Harvard non può usarli a proprio piacimento.
L’endowment è un aggregato di 14mila fondi diversi, ognuno dei quali è connesso a singoli donatori che danno regole molto specifiche per il loro uso. Ciò non vuol dire che non ci sia margine per operazioni finanziarie. Una quota tra il 20 e il 30% dei fondi è libera. Conti alla mano parliamo di circa 10 miliardi di dollari. Questa quota è «essenziale», scrivono gli amministratori di Harvard, «per sostenere la missione generale e per portare avanti iniziative trasformative e strategiche».
Dove finiscono i fondi
Il punto interessante è dove vengono impiegati questi fondi. L’ateneo si è dotato della Harvard Management Company (HMC), che gestisce l’endowment come una vera compagnia di investimenti. Oltre a vegliare i fondi vincolati, fa fruttare i soldi liberi. Dal 1974, anno della sua nascita, ha fornito all’università 43 miliardi di dollari.
In una lettera dell’ottobre scorso, N.P. Narvekar, Chief Executive Officer dell’HMC, spiega non solo come il rendimento degli investimenti sia stato del 9,6%, ma come sono stati ottenuti. Negli ultimi anni si è lavorato a modificare le caratteristiche del portafoglio, per prima cosa riducendo l’esposizione nel settore del real estate e delle risorse naturali, passando dal 25% nel 2018 all’attuale 6%. In secondo luogo c’è stato il rinforzo nel settore del private equity. La terza mossa ha riguardato l’aumento degli investimenti in hedge fund, i fondi più speculativi. Oggi il 32% degli investimenti dei fondi ricade infatti in questa categoria.
La stessa HMC nota che nel 2024 sia i portafogli di public equity che gli hedge fund si sono distinti per solide performance. «Tutto questo è un indicatore positivo perché il portafoglio di hedge fund dell’HMC ha un’esposizione azionaria inferiore rispetto alla maggior parte degli indici legati ai fondi speculativi», si legge ancora nella lettera di Narvekar.
Il problema è che dietro gli hedge fund può esserci di tutto. Tanto che nell’ultimo decennio non sono mancati gli scandali. Nel 2012 Bloomberg raccontava che il predecessore di Narvekar, Jane Mendillo, si era impegnata in prima persona nell’acquisto di terreni in Brasile per investire nella coltivazione e sfruttamento del legname ai margini della foresta amazzonica. Per anni si è discusso dell’impatto che hanno avuto le operazioni di Harvard su materie prime e commodities alterandone il prezzo e colpendo i mercati più deboli dei Paesi in via di sviluppo.
L’ennesimo scandalo
Nel 2018 è scoppiato un altro clamoroso scandalo: quello degli investimenti nei terreni agricoli. Secondo un rapporto del gruppo di attivisti climatici GRIAN, queste operazioni hanno portato alla persecuzione e allo sfruttamento di diverse comunità tradizionali in giro per il mondo, distruzione ambientale e persino veri e propri conflitti per l’acqua. Infine, in anni recenti l’ateneo ha promesso di ridurre l’esposizione nei settori socialmente più critici come l’industria fossile. Ma ciò non è bastato. Non a caso, nel 2024, oltre a protestare contro la guerra a Gaza, gli studenti hanno chiesto ad alta voce maggiore trasparenza sugli investimenti. Trasparenza che però ha generato solo vaghe promesse. Un comportamento tipico di una multinazionale, non di un tempio del sapere.
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