Ogni 15 lavoratori italiani, almeno uno usufruisce dei permessi previsti dalla legge 104: il 6% degli occupati nel settore privato. Il costo è a carico della collettività, attraverso l’Inps, che retribuisce le ore e i giorni di permesso: più di 1 miliardo l’anno, oltre ai contributi figurativi. Alle imprese tocca tutto l’onere organizzativo, perché per godere dei permessi (massimo tre giorni al mese) si può chiedere e ottenere il frazionamento orario; per cui accade che solo al mattino l’ufficio del personale di una azienda scopra di non poter contare sulla collaborazione di un proprio dipendente.
È il welfare, bellezza. Intendiamoci, bisogna evitare le facili ironie di fronte ai problemi seri di chi è colpito, direttamente o in famiglia, da un handicap grave che richiede assistenza. Come diceva Giulio Tremonti, nella sua permanenza al Mef durante la grande crisi successiva al 2008, il welfare italiano ha due pilastri: la famiglia e l’Inps. Ma se seria e responsabile deve essere la gestione delle difficoltà, altrettanto rispetto deve essere assicurato all’attività d’impresa.
Ombre sull’establishment
La legge 104 nasce nel 1992 con lo scopo nobile di integrare socialmente le persone con disabilità. È stata definita la «carta dei diritti dell’invalido» e ovviamente di chi lo assiste. Infatti la legge prevede la possibilità di fruire permessi per sé (se dipendente con disabilità, per le proprie cure e terapie) o per i propri parenti: genitori, nel caso di figli con handicap, figli, nel caso di genitori anziani o comunque disabili. Fino al terzo grado, ovvero parenti e affini: zii e cugini, diretti o acquisiti, per intenderci. Un po’ troppo generosi? Forse, ma finché ci si affida a controlli efficienti, ci sta.
Il problema nasce quando la maglia si allarga a causa dei ritardi nei controlli delle commissioni mediche delle Asl. In attesa dei tempi delle Aziende sanitarie locali, la certificazione provvisoria viene estesa alla diagnosi di un qualunque medico specialista nella patologia indicata. In Italia, si sa, nulla è più definitivo della provvisorietà. E allora la maglia si allarga ancora: basta il certificato (sempre provvisorio, ovviamente) rilasciato da un medico ospedaliero, dopo una visita ambulatoriale. Poi è stato ammesso il frazionamento orario del beneficio, fino a 2 ore al giorno, invece dei 3 giorni totali. L’anomalia si perfeziona poco più di due anni fa, quando cade il tabù del referente unico. In altre parole, i beneficiari della legge 104 (tre quarti del totale) possono turnare tra di loro: cioè il richiedente può essere una volta il figlio, una volta il cugino, una volta l’affine.
Peraltro, il pulviscolo di caregiver è di per sé poco rassicurante per il bisognoso di assistenza. Ma massimizza il rischio della frode. C’è il cugino che invece di stare un giorno a disposizione del disabile, dopo un’ora va al mare, per ritemprarsi dalla sofferenza sperimentata. E di esempi potremmo farne a bizzeffe.
Gli effetti dirompenti sul fronte della sua gestione, la legge 104 li ha irradiati nel tempo, con una progressione geometrica che il Covid, ormai responsabile di un po’ di tutto quello che è accaduto dopo la pandemia, ha fortemente accelerato. Nel 2019 i beneficiari erano poco più di 500mila, nel 2023 (ultimo dato disponibile fornito dall’Inps) erano quasi 750mila. Oggi saranno certamente molti di più, visto che comprendono anche i congedi straordinari (con il decreto legislativo 151/2001).
L’assenza di controlli
Il maggior punto di debolezza – o di rafforzamento dell’uso un po’ piratesco della possibilità del beneficio – è la pressoché assoluta assenza di controlli. Abbiamo chiesto all’Inps, che paga l’integrazione salariale del dipendente assente “per 104“, quante domande sono state respinte, o quanti permessi si sono rivelati impropri. Cioè a fronte dei 553mila beneficiari familiari del 2023, quanti sono stati i richiedenti del beneficio? Lo scarto potrebbe dare un indizio dei controlli eseguiti. Nessuna risposta è giunta, solo un generico «è allo studio un programma per rendere i controlli più stringenti». Più di quanto? E’ convinzione comune che negli ulti mi quattro-cinque anni non sia stato fatto alcun controllo. Dopo il Covid, appunto, todos caballeros.
L’anomalia non è però solo nel privato, c’è anche l’ambito pubblico. Dal 2009 anche i dipendenti pubblici possono utilizzare i benefici della legge 104. Ma a pagare la loro assenza per i tre giorni al mese di cui possono godere è il proprio datore di lavoro, ovvero l’Amministrazione pubblica di riferimento. Dunque, non l’Inps che quindi non ha alcuna contabilità in materia. Dovrebbe tuttavia avere il numero dei propri dipendenti che godono della 104: un bel campione sull’universo nazionale, ma il dato non viene reso noto.
Ebbene, supponendo che la disabilità sia equamente distribuita tra pubblico e privato, dovremmo immaginare che almeno oltre 200mila lavoratori del pubblico impiego (il 6% circa del totale) siano beneficiari: avremmo azzardato di più, se avessimo voluto pensar male. E comunque, in tutto sono più o meno un milione i lavoratori dipendenti che ogni mese, per tre giorni, non timbrano il cartellino pur percependo lo stipendio. Ne hanno tutti diritto?
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