Dismesso l’abito istituzionale, alla domanda su ciò che l’aveva più colpito durante il suo mandato, un ex presidente della Consob non esitò a indicare «l’arroganza della Banca d’Italia, la sfrontatezza di certi capi azienda e la legge sulla corporate governance». Non spiegò perché quel giudizio duro su Via Nazionale, né fece nomi di manager. Ma sulla legge precisò: «L’hanno strattonata fino all’inverosimile, pur di dare potere a chi non mette soldi propri». Non era sarcasmo, l’alto funzionario dello Stato segnalava la grande ipocrisia di un meccanismo giuridico pensato per favorire la mission di un’azienda, ma che in non pochi casi ha finito per esaltare e persino legittimare il primato del management sulla volontà dell’azionista. E Mediobanca è la rappresentazione plastica di questa deriva, avendola peraltro trasferita in ambito Generali in virtù di una partecipazione relativamente modesta (il 13,1%). Una partecipazione dalla quale trae grandi benefici – il 40% dei suoi profitti – a spese di strategie aziendali attuate da manager nominati contro la volontà di altri grandi azionisti grazie a giochi di scambio consolidati con il mondo dei fondi internazionali. L’anomalia, com’è risaputo, nasce in Piazzetta Cuccia, dove da sempre vige un sistema di governo autoreferenziale oggi retto dall’amministratore delegato Alberto Nagel in virtù di una prassi che se poteva essere tollerata al tempo di Enrico Cuccia, quando il gotha dell’industria privata pendeva dalle sue labbra, oggi non ha più ragione d’essere.
Tre anni fa, durante il primo scontro in campo aperto sul rinnovo del cda delle Generali, si contavano sulle dita di una mano i sostenitori della necessità di un riequilibrio tra azionisti e manager. Oggi leggiamo sul Corriere della Sera, a firma dell’ex direttore Ferruccio de Bortoli, che «l’era dello strapotere dei manager a dispetto della volontà di chi possiede le aziende, è avviata al tramonto». Dove però si mette in guardia «dall’eccessiva concentrazione proprietaria» e «dai pericoli di plutocrazie di azionisti con rapporti ambigui con i governi». Assodato che de Bortoli non fa che registrare ciò che è nei fatti, dissentiamo sulla seconda parte della sua affermazione. Per nostra esperienza non esistono azionisti buoni e azionisti cattivi (oggi le azioni non si pesano, si contano); esistono invece investitori interessati a profitti immediati e investitori stabili che guardano più alle prospettive e allo sviluppo dell’azienda. È peraltro un genere che sempre meno si incontra nei mercati, oggi non più punto di sintesi privilegiato fra capitale e attività produttive di lungo periodo. L’ansia di guadagni veloci ha bruciato regole che parevano granitiche. Basti pensare alla pratica del riacquisto di azioni proprie: invece che sostenere lo sviluppo del business, si utilizzano i profitti dell’azienda per comprare titoli della società sul mercato, gonfiando così la quotazione in una spirale che spesso si salda con il rinnovo dei capi azienda più inclini al guadagno rapido a scapito delle potenzialità del business. Il paradosso è che oggi tale pratica viene giudicata virtuosa, tanto da essere fortemente imitata.
Un esempio illuminante è nel nuovo piano triennale delle Generali, il cui punto qualificante è la promessa di destinare «oltre 3 miliardi al riacquisto di azioni proprie ed altre modalità di allocazione del capitale». Solo una coincidenza l’averlo annunciato qualche settimana prima del rinnovo del cda? Per non dire degli aumenti di capitale, di cui in certe realtà si è persa cognizione. Anche in questo caso Generali fa da battistrada: chi ricorda l’ultimo aumento a pagamento varato dalla compagnia? Per quanto ci consta, i cda di ispirazione Mediobanca si sono ben guardati dal sollecitare l’azionista su questo fronte, pur consapevoli che in tal modo avrebbero allargato il divario con i concorrenti in termini di opportunità di crescita. Ma si sa, un aumento di capitale di norma provoca ribassi in Borsa perché chiede denari ai soci invece di distribuirli, lasciando il manager in balìa degli umori della speculazione meno paziente. E dunque avanti con i costosi arrocchi. L’obiezione che si tratta di una consuetudine di mercato non regge, perché di mercati ne esistono più d’uno. Pur cogliendo l’opportunità di una progressiva evoluzione verso il Mercato Unico europeo, va ricordato che ogni sistema economico ha le sue peculiarità. Il contesto italiano è per esempio diverso da quello anglosassone, dove alla stragrande maggioranza degli azionisti non interessa il controllo di un’azienda ma quanto si può guadagnare acquistando le sue azioni. Nel nostro sistema sono invece presenti investitori che hanno esperienze imprenditoriali di spessore, per i quali il tema del controllo è rilevante. Quello che per alcuni è un «picchiare i pugni sul tavolo» di «plutocrazie di azionisti», a nostro avviso è invece il legittimo interesse di soggetti che investendo di tasca propria svariati miliardi vogliono avere voce in capitolo sule scelte aziendali.
Due considerazioni a questo riguardo. Se il nostro sistema economico si è salvato senza gravi traumi nel corso delle crisi che hanno attraversato il mondo negli ultimi quindici anni (da Lehman Brothers in poi) è anche merito di questa nostra peculiarità, basti pensare al ruolo delle Fondazioni nel capitale delle banche. I top manager che perpetuano il loro incarico facendo leva sui fondi internazionali attraverso i meccanismi di scambio citati, esercitano un potere pressoché illimitato senza aver mai investito nell’azienda un solo euro che non fosse legato alle stock options. Non è un caso che laddove la guida non è espressa da grandi soci stabili, dividendi fuori misura, copiosi acquisti di azioni proprie e compensi milionari ai manager sono tutt’uno a scapito della crescita dell’azienda che, mangiando ricchezza anziché produrne di nuova, diventa sempre meno in grado di confrontarsi con i competitor, magari finendo preda di realtà che fino al giorno prima si guardava dall’alto.
C’è stupore per la scalata a Mediobanca lanciata da Banca Mps, da tempo considerata la vittima predestinata in un qualche riassetto di sistema. E lo stupore diventa sdegno per la presenza nel capitale del Tesoro, che con l’11,7% concorre insieme a Delfin e Gruppo Caltagirone a sostenere le strategie dell’istituto senese. Con quale diritto il governo – domanda ipocritamente l’ancien regime – si intromette in attività di mercato che dovrebbe solo arbitrare? La risposta è articolata: con il diritto di chi ha versato nelle casse di Mps 8,5 miliardi per evitare un crack che avrebbe minato la filiera bancaria del Paese; con il diritto di chi fino a questo momento di quegli 8,5 miliardi ne ha visti tornare indietro solo 2,9; con il diritto di chi sa che quando avrà ceduto sul mercato il restante 11,7% avrà recuperato meno della metà delle risorse impiegate per il salvataggio di migliaia di posti di lavoro, una ricchezza di tutti. L’errore dei vertici di Mediobanca è di non aver colto che il mondo stava cambiando, che la sua unicità non era più tale e che nell’arena economica stavano imponendosi nuovi soggetti, magari meno sofisticati e senza dubbio più ruvidi, più muscolari, ma tuttavia capaci di portafogli che danno loro il diritto di guidare grandi realtà, consapevoli del fatto che gli errori si pagano con i soldi propri. Oggi persino Enrico Cuccia non sarebbe più Enrico Cuccia.
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