ondata di turbolenze abbattutasi sui mercati dopo gli annunci sui dazi reciproci all’inizio di aprile ha messo in agitazione gli investitori. Il mercato azionario ha subito una serie di perdite giornaliere che non si vedevano da tempo e la volatilità si è parzialmente attenuata solo a seguito della sospensione temporanea dei dazi per 90 giorni. L’incertezza rimane comunque elevata e una potenziale recessione è decisamente più probabile rispetto a un mese fa. A spaventare gli investitori c’è il farsi avanti del rischio di incorrere in uno scenario stagflazionistico, ovvero una crescita inferiore all’1% e un’inflazione superiore al 3%. I dazi sono infatti un’arma a doppio taglio in quanto nel breve termine dovrebbero far impennare l’inflazione, soffocando la crescita e minacciando il mercato del lavoro. La Federal Reserve si trova quindi tra l’incudine e il martello, con il suo doppio mandato (tenere a bada l’inflazione e sostenere l’occupazione) in conflitto e quindi la necessità di scegliere se rimanere cauta di fronte al possibile aumento dei prezzi, oppure tagliare preventivamente i tassi per scongiurare la minaccia recessiva.
Gli investitori si trovano oggi davanti a uno scenario più articolato rispetto a quello degli ultimi anni, caratterizzato da una Wall Street scatenata (+77% l’indice S&P 500 da fine settembre 2022 al 17 febbraio 2025) che ha premiato oltremisura i portafogli fortemente sbilanciati verso l’azionario, ancora meglio se a stelle e strisce. Adesso Wall Street annaspa con una volatilità accentuata e anche i Treasury hanno avuto qualche tentennamento. La buona notizia è che non tutte le asset class hanno subito vendite dello stesso importo e alcune sono ancora in attivo da inizio anno. Di conseguenza, l’aggiunta di asset class che non si muovono in tandem con le azioni statunitensi è stata generalmente utile.
EFFETTO CUSCINETTO
Se gli indici guida di Wall Street sono arrivati a segnare ribassi a doppia cifra da inizio anno, il reddito fisso si è difeso bene. Le obbligazioni hanno pertanto agito da cuscinetto parziale contro le perdite con l’indice Morningstar Us Core Bond delle obbligazioni investment grade che ha guadagnato circa l’1,9% da inizio anno (dati al 15 aprile).
La corretta diversificazione del portafoglio torna quindi centrale e fa ritornare in auge quanto dimostrato dal premio Nobel Harry Markowitz, noto per aver sviluppato la Modern Portfolio Theory (MPT), ossia che un portafoglio ben diversificato può potenzialmente raggiungere tassi di rendimento simili a quelli di un portafoglio concentrato, ma con la virtù di una minore volatilità. Un portafoglio 60/40 – ossia il 60% del patrimonio in azioni e il restante 40% in obbligazioni – che combina azioni statunitensi e obbligazioni investment grade da inizio anno ha perso circa la metà di un portafoglio solo azionario.
«Sebbene avere una certa esposizione obbligazionaria sia stato utile, un approccio più ampio alla diversificazione del portafoglio ha dato maggiori frutti, almeno finora», argomenta Amy Arnott, portfolio strategist di Morningstar. Nel rapporto 2025 Diversification Landscape 2025 di Morningstar emerge che un portafoglio più diversificato che abbraccia 11 diverse classi di attività comprendendo anche oro, materie prime, Reit e obbligazioni globali ha resistito significativamente meglio del portafoglio 60/40, generando un rendimento leggermente positivo rispetto all’oltre meno 4% del portafoglio 60/40.
OLTRE IL 60/40
«Le condizioni di fondo che hanno sostenuto l’approccio 60/40 sono cambiate e la stessa combinazione potrebbe rivelarsi inadeguata in futuro», asserisce Julian Howard, Chief Multi-Asset Investment Strategist di Gam, che rammenta il caso emblematico del 2022 quando sia le azioni che le obbligazioni hanno vacillato contemporaneamente a causa dell’inizio della guerra in Ucraina e della risalita dell’inflazione. Oggi le preoccupazioni per le politiche della nuova amministrazione statunitense e su come saranno attuate si sono unite alle minacce concorrenziali derivanti dalla tecnologia cinese di intelligenza artificiale come DeepSeek. «Per gli investitori multi-asset – aggiunge Howard – questo trend emergente di due asset class precedentemente indipendenti che iniziano a condividere rischi comuni è qualcosa di cui diffidare. Le elevate correlazioni nel tempo annullano il vero scopo di combinare azioni e titoli di Stato per ottenere diversificazione e potrebbero finire per ottenere l’esatto contrario». L’esperto di Gam menziona alcuni ‘diversificatori’ facili da implementare, a partire dai Treasury a tre mesi, titolo di debito a breve termine del governo statunitense che offre un rendimento annualizzato di oltre il 4% praticamente senza alcun rischio di tasso di interesse o di insolvenza. Allo stesso modo, le obbligazioni societarie di alta qualità a scadenza ultra-breve (generalmente inferiore a 12 mesi) misurate dall’indice Markit iBoxx USD Liquid Investment Grade Ultrashort offrono un rendimento vicino al 4,6% con una probabilità estremamente bassa di insolvenza della società sottostante.
LA PROPOSTA DI FINK
Anche Larry Fink, numero uno di BlackRock, ha messo in dubbio l’attualità del portafoglio 60/40. «Quella che una volta passava come vera diversificazione potrebbe non essere più sufficiente – ha scritto Fink nella lettera annuale agli azionisti – e il futuro portafoglio standard potrebbe assomigliare più al 50/30/20», indicando un mix di 50% azioni, 30% obbligazioni e 20% asset dei private market, come infrastrutture, immobili e credito privato. Il ceo del colosso globale dei fondi sostiene che, sebbene gli asset privati abbiano i loro rischi, offrono vantaggi che i mercati pubblici non sempre possono eguagliare, vale a dire la protezione dall’inflazione, la stabilità e rendimenti storicamente più elevati. Per la maggior parte dei piccoli investitori, risulta difficile posizionarsi sul private equity anche se oggi sono disponibili diversi Etf agganciati a questo settore.
Un’allocazione del 20% nei private market ad oggi appare alquanto aggressiva considerando anche che il valore totale degli asset privati a livello globale è di circa 14,3 trilioni di dollari, mentre i mercati pubblici valgono quasi 18 volte di più (247 trilioni di dollari), che implicherebbe una ponderazione di circa il 6% invece del 20%.
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