Il dollaro statunitense sta attraversando uno dei suoi periodi più bui degli ultimi tre decenni. Da inizio anno il Dollar Index, che misura la forza del dollaro rispetto a un paniere delle altre principali valute, è arrivato a segnare un calo di oltre il 10%, con le politiche tariffarie di Trump che causano incertezza diffusa, tra rischio recessione per la maggiore economia al mondo e c’è chi addirittura paventa che sia a rischio il suo status di valuta di riserva mondiale. Uno scenario difficile da immaginare oggi in quanto il dollaro domina la scena in termini di riserve valutarie (58%), debito internazionale (64%), pagamenti internazionali (58%) e operazioni sul mercato valutario. «È improbabile che il biglietto verde perda presto il suo ruolo di valuta di riferimento mondiale, ma ciò è dovuto principalmente alla mancanza di alternative serie. Tuttavia, le politiche di Trump potrebbero intaccare ulteriormente il dominio del dollaro», spiega Roberto Mialich, forex strategist di Unicredit. A contribuire a destabilizzare la valuta statunitense, e anche gli altri asset a stelle e strisce, si sono aggiunte le preoccupazioni sull’indipendenza della Federal Reserve dopo i ripetuti attacchi di Donald Trump contro Jerome Powell, con l’emergere anche della possibilità di un suo licenziamento in tronco (ipotesi poi smentita da Trump). «Se la Fed cedesse alle pressioni di Trump a tagliasse i tassi, il danno al dollaro potrebbe essere sufficiente a far andare l’euro/dollaro a 1,20», argomenta a Francesco Pesole, forex strategist di Ing, che tuttavia, considera questo evento più come il culmine della crisi di fiducia del dollaro piuttosto che come una nuova normalità dei rapporti di forza tra le due valute. Sta di fatto che il dietrofront del biglietto verde, ben visto dall’Amministrazione Trump, potrebbe rivelarsi strutturale e non manca di influire sui mercati finanziari, impattando non poco sulle scelte d’investimento, con opportunità e sfide per diversi asset e settori.
Meno States in portafoglio
Se lo scorso anno la forza del dollaro aveva premiato oltremodo l’investitore europeo che prendeva posizione in asset denominati nella valuta statunitense, a partire da Wall Street, quest’anno è esattamente l’inverso. Pertanto, alla debolezza mostrata in questi mesi da Wall Street, bisogna sommare anche l’effetto zavorra del dietrofront del biglietto verde (oltre -10% contro l’euro). Un investitore europeo che ha acquistato un Etf o fondo sull’S&P 500 non coperto dal rischio cambio subisce entrambe le perdite.
Per chi non vuole esporsi agli umori ballerini delle valute ci sono strumenti a cambio coperto (hedged) che neutralizzano di fatto l’effetto delle oscillazioni, favorevoli o sfavorevoli, del mercato valutario. Adam Parker, fondatore di Trivariate Research ed ex head strategist di Morgan Stanley, ha calcolato che dal 2001 a oggi nei 16 periodi di debolezza della divisa statunitense (oltre -5%) e l’azionario Usa ha mostrato in media una spiccata debolezza relativa rispetto alle altre aree in questi periodi, con delle eccezioni a livello settoriale quali estrazione mineraria, servizi finanziari e infrastrutture.
In un contesto di mini-dollaro risulta quindi ragionevole ridurre l’esposizione agli asset statunitensi; un movimento che si è già materializzato nelle ultime settimane con corposi deflussi dai fondi azionari Usa; di contro, risulta più redditizio riposizionarsi sull’Eurozona, con l’obiettivo di guadagnare in euro e non in dollari.
Giganti globali
Così come i turisti europei troveranno molto conveniente adesso fare le vacanze a New York rispetto a un ano fa (mentre per gli americani viaggiare in Europa sarà più costoso), allo stesso modo gli esportatori americani possono trarre vantaggio da un dollaro più debole, perché i loro beni costano meno ai clienti stranieri. Pertanto, grandi colossi quali Apple, Microsoft e Amazon, con una significativa quota di ricavi internazionali, potrebbero beneficiare di questo scenario. «Storicamente gli analisti tendono a non includere nelle loro stime, almeno nella prima parte di un movimento di deprezzamento, l’effetto valutario – rimarca Nicolò Nunziata, responsabile ricerca e mercati di Finint Private Bank – . Al contrario, quando un movimento valutario dura a lungo, gli investitori guardano i risultati ‘reported’ e l’effetto cambio per chi esporta, che può generare sorprese positive o negative rispetto alle stime di consenso».Tra le aziende con una quota maggiore di fatturato venduta all’estero spicca tra gli altri Newmont, società aurifera che vede oltre il 92% dei propri ricavi legati all’estero e che da inizio anno ha visto schizzare il proprio valore di oltre il 48% sulla scia dei ripetuti record dell’oro. Oltre 90% dei ricavi arrivano dall’estero anche per la multinazionale alimentare Mondelez; tra i grandi nomi Made in Usa con forte dipendenza dei ricavi dall’estero spiccano anche Philip Morris (87%), Applied Materials (86%) e Booking.com (78%); anche colossi tech quali Qualcomm, Amd, Intel e Texas Instruments vedono ben oltre la metà dei loro ricavi derivare dall’estero. «Da un lato è ragionevole ipotizzare che tutte queste aziende subiranno qualche forma di contraccolpo negativo dai dazi – aggiunge Nunziata – ma dall’altro è lecito attendersi una rivalutazione nel bilancio in dollari, dal fatturato conseguito in altre valute».
Doppio assist per l’oro
La debolezza del dollaro ha fornito in questi mesi un assist aggiuntivo alla corsa forsennata dell’asset rifugio per eccellenza, l’oro; essendo denominato in dollari, così come tutte le materie prime, si avvale del duplice vantaggio dell’essere percepito come il principale bene rifugio in fasi di elevata incertezza come quella attuale, a cui si somma la prolungata debolezza del dollaro. La svalutazione del dollaro rende infatti più conveniente per gli acquirenti esteri, ad esempio gli europei, comprare oro e questo funge da stimolo alla domanda del metallo prezioso. Supponendo un prezzo iniziale di 3mila dollari l’oncia, un aumento del 10% delle quotazioni lo porta in area 3.300; se contestualmente il dollaro si è deprezzato anch’esso del 10%, per l’investitore europeo è ugualmente conveniente acquistare il lingotto in quanto l’effetto valuta controbilancia in toto l’aumento del prezzo.
Universo emergenti
Il dollaro funge da valuta di riferimento in diversi paesi emergenti e quindi una sua debolezza fa da sponda alle loro economie. Il Fmi ha calcolato che un apprezzamento del dollaro statunitense del 10% riduce la produzione economica dei paesi emergenti dell’1,9% dopo un anno, e questo freno persiste per due anni e mezzo. In caso di movimento valutario opposto la situazione si ribalta, da freno a stimolo. Le valute emergenti aumentano di valore in termini relativi e questo rende i cittadini e gli investitori più propensi ad acquistare e l’attività economica cresce. In aggiunta un dollaro debole aiuta questi paesi a ridurre lo stock di debito denominato in valuta estera e i relativi pagamenti di interessi. L’Indice Msci Emerging Markets, reduce da quattro anni consecutivi di sottoperformance rispetto all’azionario globale, segna da inizio anno un saldo lievemente positivo, in controtendenza rispetto ai cali delle maggiori Borse globali, con una sponda importante dalla Cina che risulta il paese di maggior peso nell’indice (31%), davanti a India (18,5%) e Taiwan (12,5%). Durante i periodi di debolezza del dollaro, anche gli spread creditizi dei mercati emergenti tendono storicamente a restringersi.
© Riproduzione riservata