Due indizi non fanno una prova. E due problemi non fanno una soluzione. Primo problema: la previdenza obbligatoria, il primo pilastro della pensione, non potrà essere sufficiente per costruire una vecchiaia serena. Secondo problema: la previdenza complementare deve essere uno strumento essenziale da mettere nel conto delle risorse alla fine del percorso di lavoro, ma non riesce a partire. Di fatto la previdenza complementare non è una ricetta sufficiente per tranquillizzare i futuri pensionati, né quelli prossimi alla quiescenza, né quelli più giovani, che debbono pazientare qualche decennio.
Due numeri. I rendimenti medi dei fondi pensione superano di slancio la “protezione garantita” dal Tfr solo nei profili di rischio “azionario”. Peccato che la cosa riguardi appena il 4% degli iscritti ai fondi pensione chiusi, quelli contrattuali. E non più del 10% se nel conto ci mettiamo tutto: fondi pensione chiusi, aperti e Pip. Circa la metà degli aderenti ha allocato la propria posizione previdenziale in linee di investimento con una quota azionaria nulla ovvero marginale.
In uno degli ultimi atti firmati (l’audizione parlamentare nei primi giorni di aprile) dalla presidente Covip facente funzione, Francesca Balzani, da pochi giorni sostituita dal nuovo presidente Covip, Mario Pepe, si leggeva che «i rendimenti delle forme di previdenza complementare nel 2024 sono risultati positivi, come già nell’anno precedente, con valori più elevati per le gestioni con una maggiore esposizione azionaria». Vero. Ma se poi si va a vedere nel dettaglio, nell’ultimo decennio – che è un po’ la visione di medio periodo adeguata a valutare gli investimenti finanziari per la previdenza – si nota che le forme garantite e obbligazionarie, che costituiscono la stragrande maggioranza dei profili degli iscritti ai fondi (almeno un iscritto su due), viaggiano con performance di poco superiori all’1%, spesso schiacciate con cifre da prefisso telefonico, contro il 2,4% del Tfr. Il bilanciato che coinvolge quasi il 40% degli iscritti alla previdenza complementare nel decennio sviluppa tra l’1,9% (Pip) e il 2,9% (fondi aperti) di rendimento medio, in linea con il Tfr.
Insomma, la pensione di scorta ha una ruota sgonfia. Non conviene ancora, nonostante la continua suggestione positiva indotta dal mainstream. Troppo spesso si dimostra più performante il rendimento ottenuto con il Tfr, che è comunque più rassicurante. Il contesto di per sé non è favorevole a una propensione all’investimento aggiuntivo: la contribuzione previdenziale obbligatoria in Italia “blocca” il 33% della retribuzione (tra componente del lavoratore e componente dell’azienda), a fronte di un 18% in Germania, per fare un esempio. Con questo “zoccolo duro” non è facile reperire risorse aggiuntive da dirottare a una prestazione differita nel tempo. Soprattutto se i rendimenti medi non sono convincenti.
E infatti il numero degli iscritti alle forme pensionistiche complementari non decolla: siamo sempre a circa un terzo della forza lavoro nel suo complesso. Tanto che ogni tanto si assiste a una richiesta, curiosa ma comprensibile, quasi una scorciatoia: rendere obbligatoria la previdenza complementare. Uno degli ultimi promotori della suggestione è stato il sottosegretario al ministero del Lavoro, Claudio Durigon. La contraddizione in termini è evidente: quello che è obbligatorio non può essere ascritto a una forma di integrazione o di complementarietà. Ogni tanto fa capolino la richiesta di adesione ai fondi pensione attraverso un tacito consenso. Qui è il presidente di Assofondipensione, Carlo Maggi a caldeggiare, a più riprese, la soluzione, con l’obiettivo di far crescere, surretiziamente, la massa critica delle adesioni.
L’impasse non è di poco conto. Per avere una buona pensione complementare bisognerebbe scommettere su investimenti più ”rischiosi”, come l’azionario. Peccato che solo una minima minoranza lo faccia. E sarebbe sbagliato dare la colpa alle congiunture sfavorevoli, come quella di questi giorni, in coincidenza della guerra dei dazi.
L’ex presidente Covip, nell’ultima audizione parlamentare in cui ha rappresentato la Commissione di vigilanza, ammetteva che la legge stessa contiene «un bias a sfavore delle linee a elevato contenuto azionario, laddove prevede tuttora, per i lavoratori di nuova assunzione, un meccanismo di adesione tacita in una linea di tipo garantito che offra rendimenti comparabili a quelli del Tfr. La Covip si è più volte espressa a favore del superamento di questa previsione, da sostituire con l’adozione, soprattutto per i lavoratori più giovani, di linee di investimento di default a contenuto azionario rilevante, in particolare di tipo life-cycle. Tale innovazione sarebbe di grande rilievo soprattutto qualora si introducesse una nuova fase di adesione automatica da applicare a tutti i lavoratori e non solo a quelli di nuova assunzione. La modifica proposta avrebbe un impatto di rilievo nel modificare l’allocazione complessiva degli investimenti dei fondi pensione italiani in favore di maggiori quote di investimento in azioni».
Un ulteriore aspetto del sistema attuale che potrebbe essere modificato per favorire l’utilizzo di linee di investimento a più elevato contenuto azionario, è quello di rendere più ampia la scelta della tipologia di prestazioni offerte agli iscritti al momento del pensionamento. Come noto, attualmente come prestazione pensionistica standard viene prevista la rendita vitalizia, salvo la possibilità della liquidazione in forma di capitale: la soluzione di gran lunga preferita. La Covip ha proposto di introdurre, come prestazione in fase di erogazione, anche quella di prelievi programmati.
Poi c’è la vulgata “di regime”: l’adesione alla previdenza integrativa ha registrato un trend crescente lo scorso anno, con un incremento del 4,2% delle posizioni aperte, salite a 11,1 milioni. Tutto vero. Salvo poi verificare che più di un terzo non paga i contributi richiesti. E che il trend è frenato: nel corso del 2023, al netto dei trasferimenti interni al sistema, le nuove adesioni sono state 737.000, rispetto alle 826.000 dell’anno precedente.
E poco importa che il pensiero unico, magari anche di buon senso, solleciti il boom della previdenza complementare. Purtroppo, non se ne vedono basi solide, se non un ideologico imperativo, che reclama una necessità. E non basta, come promozione, lo sventolio della bandiera sempre più magra e stracciata del primo pilastro previdenziale: integrare bisogna. Giusto. Ma dove? Con che soldi? E per quali obiettivi? Si cercano ancora risposte, senza ideologia e senza scorciatoie.
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