Il boom dell’occupazione in Italia mette un po’ la sordina a uno storico problema del Paese: il mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Il mercato del lavoro “tira” e copre in parte (per ora) la storica disfunzione delle attività di formazione. A fronte di 1,4 milioni di assunzioni nel primo trimestre 2025, si attesta al 48,2% la quota di assunzioni di difficile reperimento soprattutto a causa della mancanza di candidati per ricoprire le posizioni lavorative aperte. Quindi una domanda su due nel mercato del lavoro in Italia non trova un’offerta adeguata. Hai voglia a parlare di transizione (green o digitale): vuol dire che la macchina della formazione – sia quella professionale e continua, sia quella attivata a fronte di momentanei periodi di disoccupazione – non funziona.
Eppure, è una macchina a cui non mancano risorse, soprattutto pubbliche: europee, nazionali e regionali. Le risorse pubbliche comunitarie disponibili a livello nazionale ammontano a 5,4 miliardi di euro solo per il programma Gol (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori) in cinque anni. A queste somme si aggiungono gli oltre 2 miliardi resi disponibili in tre anni dal Fondo Nuove Competenze (solo quest’anno vale 760 milioni) per la formazione continua e la quota del Fondo sociale europeo con cui si contribuisce a finanziare il sistema della formazione professionale.
Alle risorse pubbliche si aggiungono quelle aziendali e quelle del sistema dei fondi interprofessionali (che pescano nella quota dello 0,30% accantonata dalle aziende a questo scopo). E poi c’è «la filiera lunga della formazione professionalizzante» pensata per i giovani che devono accedere al mondo del lavoro, che comprende IeFp (istruzione e formazione professionale), Ifts (istruzione e formazione tecnica superiore), istituti tecnici e professionali e Its (istruzione tecnica superiore, alternativa ai percorsi di laurea) Academy.
Insomma, almeno tre target distinti: il primo è composto dai candidati alla prima occupazione; il secondo riguarda i lavoratori in attività con l’obiettivo dell’aggiornamento continuo, la «formazione permanente»; il terzo composto dai disoccupati o dai lavoratori titolari di politiche passive (avremmo detto una volta cassintegrati). Al netto delle forche caudine contrattuali – tra apprendistato e tirocini – dove il ruolo delle organizzazioni sindacali è di per sé esuberante (ogni contratto di formazione lavoro deve essere sottoposto alla vigilanza sindacale), il sindacato compare direttamente o sotto forma di ente collegato in ogni fase del processo formativo, in certi casi con una presenza pressoché monopolista (nella formazione continua, attraverso i fondi interprofessionali: enti bilaterali, formalmente rappresentanti della componente datoriale e di quella lavorativa, ma a sostanziale trazione sindacale), in altri casi con un ruolo largamente maggioritario (in tutta la formazione rivolta a lavoratori percettori di ammortizzatori sociali).
Tutto ciò, con quale esito? Cominciamo col dire che l’attenzione rivolta ai fruitori è discontinua, la qualità dei corsi erogati spesso inadeguata, la validazione e certificazione delle competenze (quindi la misurazione dell’output raggiunto dalla formazione) una preoccupazione avvertita solo da un paio d’anni. Il che significa che la remunerazione degli enti accreditati (una piccola giungla, lo vedremo) non è mai stata collegata ai risultati conseguiti in termini di reinserimento nel mercato del lavoro. Solo per il Programma Gol gli enti accreditati alla formazione (che cambiano da regione a regione: la regionalizzazione è una premessa essenziale per l’inefficienza, la disomogeneità e il clientelismo) sono oltre 800 in Lombardia, oltre 200 nel Lazio, oltre 400 in Emilia Romagna, per dare qualche numero.
In questa giungla la scelta del lavoratore da «ri-formare» è affidata agli oltre 500 Centri per l’Impiego (noti per una bassa efficienza, intercettano circa il 2% del mercato del lavoro) che smistano i contatti con criteri non sempre trasparenti: in certi casi si segue la richiesta del candidato che ha la facoltà di indicare la struttura con cui svolgere il percorso formativo (è facile immaginare la capacità di comunicazione svolta dalle organizzazioni sindacali per orientare le scelte); in altri si preferisce una contiguità territoriale: si sceglie la struttura in base alla vicinanza della sede provinciale del Centro per l’Impiego (e anche in questo caso la distribuzione territoriale avvantaggia i soggetti, come i sindacati, che hanno una presenza capillare); in molti altri casi l’assegnazione avviene in piena discrezionalità del Centro per l’Impiego (e qui il tramite è ancora più diretto: i dipendenti dei Centri sono quasi sempre di estrazione sindacale, come accade in gran parte della Pa).
Non è un azzardo immaginare che almeno metà delle risorse del Programma Gol siano intercettate da enti di emanazione sindacale (che quindi dovrebbero fatturare circa 2,7 miliardi in cinque anni); e almeno i tre quarti delle attività dei fondi interprofessionali (solo per il Fondo Nuove Competenze si stimano 1,5 miliardi in tre anni). Da questo computo manca tutto il profluvio di risorse che transitano dalle Regioni, derivanti dai fondi europei di coesione, e la quota parte che deriva dalla formazione continua in azienda, tutt’altro che marginale: nel 2024 sono state poco più di 730mila le imprese che hanno organizzato attività di formazione per i propri dipendenti, pari al 51% del totale.
Il finanziamento “indiretto” alle organizzazioni sindacali che deriva dal business della formazione è persino più cospicuo di quello presidiato sul fronte degli intermediari istituzionali. Nel 2012 Giuliano Amato fu incaricato di fornire analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti, sul loro finanziamento e sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati. Glielo chiese il governo presieduto da Mario Monti. L’indagine di Giuliano Amato si arenò, di fatto, sui patronati e sui Caf. Gli intermediari istituzionali che facilitano il rapporto tra cittadini e Pubblica amministrazione non sono un’esclusiva delle organizzazioni sindacali. Ma Cgil Cisl e Uil rappresentano la gran parte di questo mondo di servizi al cittadino, incassando per questa attività una cifra superiore al miliardo. In questa somma non sono comprese le quote che individualmente i cittadini versano agli istituti di patronato e Caf per iscriversi o per dare seguito alla propria pratica. Una chiosa: dal 2013 gli ispettori ministeriali non hanno svolto una aggiornata rilevazione dei servizi resi da Caf e patronati, per cui questo miliardo (circa) viene erogato senza controllo.
Ma è poco, rispetto al business della formazione, vero canale di finanziamento del sindacato, sempre più scarno di incassi da quote dei lavoratori attivi, solo in parte compensate da quelle dei pensionati, ormai la categoria più cospicua della rappresentanza sindacale.
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