«Una volta trovai un osso duro, un vero tanghero che, nel corso di un piccolo scambio di idee, mi assestò sul cranio la leva di ferro che teneva in mano. Il mondo scomparve nel buio, e io non sentii né capii più nulla».
È noto che il presidente Trump sta adottando misure protezionistiche attraverso una serie di dazi sulle importazioni, misure che hanno provocato reazioni negative ovunque. Leggiamo che l’imposizione dei dazi manda in crisi i mercati, e lo spauracchio della recessione mondiale s’avanza a mostrare la sua faccia.
Come per ogni cosa, anche per i dazi tutto dipende dal fine ultimo: possono aumentare il benessere collettivo oppure proteggere soltanto gli interessi di pochi.
«Costui è il mago Merlino, il più possente mentitore che abbia mai calpestato questa valle di lacrime! Racconta sempre la stessa storia, con le stesse parole; e sempre in terza persona, perché vuol far credere di essere troppo modesto per esaltare se stesso. Che il fulmine lo strini!».
In un modo o nell’altro pare che nella vita bisogna sempre mettersi in salvo da qualcosa, parare i colpi che arrivano.
La letteratura – che sa farsi bastone utile per risalire le chine dell’esistenza – ha spesso affrontato, in modi diversi, il tema economico. Ne “I Malavoglia”, Verga fa notare quanta parte la politica doganale italiana avesse nella crisi della pesca e dei prodotti agricoli. In “Tempi difficili”, Dickens critica la forma distorta e fredda dell’utilitarismo applicata alle persone come fossero numeri, pensata solo in termini economici e senza una valutazione morale sui danni umani collaterali.
«I discorsi dei tizi seduti alla gran tavola erano di regola resoconti assurdi di duelli altrettanto assurdi».
Se volessimo osservare con gli occhi di Dickens le azioni di Trump, si potrebbe ipotizzare che queste misure economiche abbiano anche una valenza simbolica, sono un’arma geopolitica per negoziare accordi diversi, e tuttavia forse poco efficace sul piano del benessere collettivo, poiché rendendo più costosi altri beni, finiscono per colpire le classi più deboli, per cui da un punto vista utilitaristico potrebbe essere un fallimento.
«Così a poco a poco, cominciò a tessermi intorno un vero incantesimo. Mi pareva di muovermi in mezzo agli spettri, alle ombre alla polvere e alla muffa di una grigia antichità».
E come Dickens smaschera l’utilitarismo che diventa cinismo, anche Mark Twain (i passaggi citati sono suoi), nel 1889, nel romanzo “Un americano alla corte di re Artù”, esplora il tema delle tarife doganali e il loro impatto sull’economia e sulla società. Attraverso la sua storia – con un tono ironico e quasi beffardo – illustra una serie di discrepanze per criticare le politiche protezionistiche, suggerendo che i dazi, sebbene possa sembrare che favoriscano l’economia locale proteggendo le industrie nazionali, in realtà spesso avvantaggiano solo una piccola minoranza.
«La loro ingenuità era davvero straordinaria; avevano un che di fanciullesco che contrastava con i racconti, pieni di sangue e di ferocia, con cui passavano il tempo»
Il protagonista Hank Morgan («yankee fino al midollo, uomo pratico se mai ve ne furono»), un ingegnere del XIX secolo – trasportato nel regno di Camelot, osserva che l’imposizione di dazi elevati in una regione porta a un aumento dei prezzi dei beni, rendendoli meno accessibili ai lavoratori comuni.
«Via via che la città si avvicinava si vedevano i primi segni di vita: misere capanne con il tetto di paglia, circondate di campicelli e di orti mal coltivati».
Hank confronta i prezzi dei beni tra due regioni, e nota come le tariffe influenzino il costo della vita. «Quanto pagate per una libbra di sale?», chiede a un fabbro. «Cento milrays», risponde quest’ultimo. «Noi paghiamo quaranta», replica Hank, che continua a confrontare i prezzi di altri prodotti rilevando che, nonostante i salari possano sembrare più alti in una regione con tariffe protettive, il costo della vita è proporzionalmente maggiore, annullando i benefici dei salari più elevati.
Twain utilizza quest’opera intrisa di realismo satirico – in cui nessuno viene risparmiato (a cominciare da Merlino, descritto come un ciarlatano vendicativo) – per criticare le misure protezionistiche. La sintesi di questo viaggio nel tempo – incalzante nella narrazione e brillante nel linguaggio che alterna uno stile pomposo e arcaico a uno moderno e pieno di tecnicismi – è l’esplorazione di temi come il progresso, la democrazia e le strutture sociali. Rappresenta una critica tagliente delle politiche dei dazi, mettendo in luce come queste possano aggravare le disuguaglianze economiche e sociali, anziché alleviarle.
“Un americano alla corte di re Artù” è quasi un fantasy socio-politico, con una serie di situazioni surreali che mettono in crisi le nostre certezze, e le nostre arroganze. Lo scopo è la riflessione sulla libertà, la giustizia, il progresso; la considerazione del conflitto tra quei valori che rendono umano l’uomo e la freddezza dei numeri e del calcolo.
È un’avventura divertente e tuttavia cupa fra le righe, dove le aspirazioni del protagonista, che tratta il medioevo come una macchina da aggiornare, si tramutino in una sorta di distopia tecnologica.
«Io avevo introdotto il telefono, la luce elettrica, le scuole laiche, le ferrovie, i giornali, l’assicurazione sulla vita e il voto segreto. […] Stavo anche lavorando a un giornale umoristico; non era facile, perché non avevano il senso dell’umorismo, ma ero deciso a insegnarglielo, volessero o no. Il progresso è progresso, e io intendevo averlo, anche a costo di metterlo in bottiglia e farlo bere a forza».
C’è dell’amarezza nel finale malinconico, uno sguardo lungo e profetico che riflette il pessimismo dell’autore sulle utopie e i sogni di modernità.
«Parlava con un tono calmo, fluente; e mentre parlava pareva trasportato senza accorgersene fuori di questo mondo e di questo tempo, in qualche era remota, in un antico paese dimenticato».
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