L’inversione di rotta di Donald Trump è arrivata, per molti versi imprevista, e si è riversata immediatamente, com’era prevedibile, sull’andamento dei mercati finanziari. I dazi reciproci annunciati il 2 aprile sono stati sospesi per 90 giorni. Così ha deciso la Casa Bianca una settimana esatta dopo l’annuncio, complici le reazioni negative dei mercati a livello globale, con gli stessi asset statunitensi sotto pressione, sia azioni che Treasury, a causa dei timori per una possibile ripresa dell’inflazione in una prospettiva di medio periodo. I dazi restano al 10% per tutti i Paesi, Italia compresa, con l’eccezione della Cina (su cui la tariffa è stata alzata ulteriormente dal 104 al 125%). Sulle auto confermato il 25%, così come l’aliquota che grava sulle merci provenienti da Messico e Canada.
Il provvedimento annunciato ha avuto l’effetto immediato di spingere all’insù gli indici di Wall Street la sera del 9 aprile che hanno registrato un mega rimbalzo (+12% il Nasdaq, +9,5% l’S&P 500) e aperto la strada del rialzo alle Borse europee il giorno successivo. Per le big tech il recupero è stato a doppia cifra. La corsa degli investitori a uscire dall’azionario per spostarsi sugli asset considerati più sicuri, come i titoli di Stato, si è quindi interrotta sul nascere. Anche a Piazza Affari l’indice Ftse-Mib ha ripreso a crescere, riportandosi rapidamente intorno a quota 35 mila punti, dopo essere sceso nel corso dell’ultimo mese da quota 39 mila a 32 mila. Un comportamento che in altre circostanze sarebbe stato giudicato schizofrenico, ma che dimostra quanto le Borse abbiano subito il condizionamento delle decisioni americane sui dazi.
Per almeno tre mesi, a meno di nuovi colpi di scena (ai quali Trump ci ha purtroppo abituato) la situazione non dovrebbe cambiare. Ma la sospensione annunciata ha tutta l’aria di andare oltre una semplice tregua. Tanto che anche gli analisti delle grandi banche d’affari, che erano stati tempestivi nel disegnare un futuro di recessione, hanno immediatamente fatto marcia indietro. Goldman Sachs, che si era pronunciata per prima, per esempio, è passata in poche ore da uno scenario fortemente pessimistico a una previsione di crescita del Pil americano dello 0,5% e un’inflazione “core” al 3,5%. Anche l’oro è rimbalzato, a 3.123 dollari l’oncia.
Nel frattempo, la Cina, che aveva annunciato contro-dazi fino al 34% su tutte le importazioni dagli Usa, ha proseguito nella strategia di svalutazione dello yuan, senza tuttavia premere troppo sull’acceleratore. Giovedì scorso la Banca centrale cinese ha nuovamente abbassato il tasso di riferimento, anche in questo caso nel tentativo di sostenere le proprie esportazioni. La sensazione, infatti, è che la strategia di Donald Trump sia quella di ritornare a puntare sull’Europa, sostituendola alla Cina come sbocco principale dei prodotti americani. Pechino si è quindi orientata a prendere le contromisure del caso. Compresa la minaccia di vendere parte del debito americano che notoriamente si trova in grandi quantità custodito nei forzieri delle banche cinesi.
In cerca di conferme
Il recupero delle Borse, partito da Wall Street, è chiamato a delle conferme nelle prossime settimane. Rispetto all’Europa, dove ad attirare la maggioranza dei risparmiatori sono tradizionalmente i titoli a reddito fisso, negli Usa l’approccio dei risparmiatori nei confronti dei listini azionari è assai più diretto e massiccio. Basti pensare che il 62% degli americani investe regolarmente e direttamente in azioni. A questa fetta di popolazione già di per sé consistente – fatta di pensionati, operai, impiegati, addirittura casalinghe, che hanno dimestichezza con quotazioni e listini – vanno poi aggiunti gli investimenti indiretti: in particolare quelli effettuati non solo dai fondi d’investimento ma anche e soprattutto dai fondi pensione per conto dei loro sottoscrittori. La pensione pubblica, chiamata assegno sociale, non è così diffusa come da noi e i fondi privati sono tra gli operatori principali di Wall Street, spesso in grado di condizionare la direzione degli indici.
L’esposizione dell’Italia
Da parte dell’Unione europea e in particolare dell’Italia prosegue invece la strategia della cautela, con l’obiettivo di puntare a una qualche forma di negoziato con il governo statunitense e prevenire così eventuali repentini cambiamenti di strategia. L’export del nostro Paese riguarda per buona parte prodotti di fascia alta, come cibo, vino e moda. Gli aumenti di prezzo dovuti alla maggiore incidenza dei dazi, ora sospesi per tre mesi, secondo alcuni osservatori proprio per questo avrebbero potuto essere assorbiti più facilmente da parte degli acquirenti finali. Superati per ora anche i timori espressi dalle organizzazioni della filiera vitivinicola italiana. Il mercato Usa rappresenta infatti la prima destinazione del vino italiano. Una ricerca di Nomisma Wine Monitor per conto di Federvini rileva che il mercato americano rappresenta da solo quasi un quarto (il 24%) dell’export mondiale di vino italiano. L’introduzione dei dazi avrebbe dunque potuto mettere a rischio «l’equilibrio competitivo del made in Italy» con un netto aumento dei prezzi medi del vino italiano importato negli States. Tenendo anche conto che, fa notare Federvini, «dalla dogana allo scaffale il prezzo del vino aumenta mediamente di quattro volte stando al sistema distributivo statunitense, che per legge stabilisce tre passaggi intermedi – importatore, distributore, dettagliante – prima di arrivare al consumatore».
In un contesto di mercato, dove Paesi come Cile, Australia e Argentina, ai quali si aggiungono i produttori californiani, offrono vini a prezzi più bassi, sia pure destinati a un diverso target di consumatori. Nessun accenno invece ai possibili riflessi che avrebbero riguardato le altre merci esportate dall’Italia verso gli Usa, comprese quelle extra alimentari come alcuni tipi di macchinari industriali che hanno un peso importante sul controvalore totale dell’interscambio con gli Usa.
L’incidenza delle banche
Al di là dei rimbalzi tecnici sopraggiunti all’indomani delle cadute più significative, le quotazioni delle azioni in Italia avevano comunque subito un taglio mediamente superiore rispetto a quelli delle più importanti Borse mondiali. E questo si spiega con il fatto che a Piazza Affari i titoli bancari, pesano per quasi la metà dell’intera capitalizzazione. Dopo avere trascinato al rialzo il nostro listino negli ultimi anni, grazie al cosiddetto risiko bancario (le alleanze già portate a termine e quelle in via di definizione) questi titoli sono stati i primi a frenare, a causa di almeno due fattori: da un lato il timore di insolvenze di quella parte della loro clientela più esposta ai dazi e dall’altro la prospettiva di una riduzione dei tassi d’interesse, che avrebbe conseguenze dirette sui loro margini. Ora il problema sembra se non superato, almeno messo in stand-by. Tant’è vero che fin dai primi scambi di giovedì scorso la ripresa del comparto non si è fatta attendere, in un contesto generale comunque molto positivo dopo lo scampato pericolo (si spera non temporaneo ma duraturo) della spada di Damocle dei dazi americani.
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