Ha stupito Elon Musk quando ha condiviso su X un vecchio video in cui Milton Friedman, premio Nobel per l’economia (morto nel 2006) e uno dei più fervidi sostenitori del libero mercato, illustra con una matita “la magia del sistema dei prezzi” e la necessità di avere commerci senza barriere. Friedman, che negli anni Ottanta è stato il teorico del neoliberismo di Reagan e di Margaret Thatcher, avrebbe duramente contestato la strategia di Trump. Nel suo post su X, Musk non ha fatto commenti, ma il messaggio non potrebbe essere più chiaro.
Nei giorni precedenti il capo del Doge aveva auspicato “zero dazi” tra Europa e Stati Uniti e aveva attaccato il consigliere della Casa Bianca per il commercio, Peter Navarro, considerato l’architetto dei dazi, come un “egocentrico che non ha mai costruito un c…”. Navarro lo ha liquidato così: “Elon non è un produttore ma un assemblatore di automobili”, con pezzi che arrivano da Cina, Giappone e Taiwan, “mentre noi vogliamo che gli pneumatici siano realizzati ad Akron, vogliamo che le trasmissioni siano realizzate a Indianapolis”. Secondo il Washington Post, nel fine settimana del 5-6 aprile Musk ha cercato personalmente di convincere Trump a revocare i dazi, anche quelli sulla Cina. Ma il tentativo non ha avuto successo. Tesla ha intanto visto le vendite trimestrali crollare drasticamente a causa delle reazioni negative al suo ruolo di consigliere di Trump. Le sue azioni erano scambiate a 233,29 dollari, in calo di oltre il 42% da inizio anno.
Ma non c’è solo il patron di X e Tesla a pungolare Trump. Che forse dovrebbe più preoccuparsi delle reazioni contrariate che cominciano a filtrare, nemmeno troppo velatamente, dai big di Wall Street. Soprattutto di quelli che si sono schierati al suo fianco e lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Hanno fatto sentire la loro preoccupazione i grandi ceo americani, con Jamie Dimon che ha lanciato l’allarme sostenendo che i dazi faranno rialzare i prezzi e rallenteranno la crescita dell’economia, mentre il miliardario Bill Ackman ha chiesto una pausa di 90 giorni nell’implementazione delle tariffe, definendole un “errore”. Fa rumore soprattutto l’intervento di Larry Fink di BlackRock che ha detto che i ceo con cui parla affermano che probabilmente già ora gli Usa sono in recessione.
Se Fink parla non può non essere ascoltato. Blackrock è la più grande società di investimento al mondo che sposta masse di milioni di dollari con un clic e gestisce per conto dei propri clienti la cifra record di 11.475 miliardi di dollari di asset. Una sorta di sherpa del mercato che quando suona la carica viene seguito a ruota dagli altri investitori internazionali, ma anche un interlocutore strategico di governi e autorità dei singoli Stati. Il ceo Fink è stato anche uno dei consiglieri più ascoltati in politica economica da Barack Obama che gli ha affidato la leadership — attraverso una serie di contratti con il governo Usa — nel salvataggio della Borsa americana dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime. Cambiano gli inquilini alla Casa Bianca ma Fink resta. Nel 2010 un lungo articolo apparso sull’edizione americana di Vanity Fair lo aveva definito «il più importante personaggio della finanza mondiale» e, nonostante questo, «virtualmente uno sconosciuto a Manhattan», dove vive in un appartamento sull’Upper East Side. Calmo, educato, riflessivo, in apparenza tutto il contrario dell’archetipo della finanza anni Ottanta. Ma “quando la crisi colpisce, la maggior parte dei leader mondiali alza il telefono e chiama Fink”, ha scritto il Financial Times.
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